Regime di guerra e spazi politici del capitale globale

di Fabio Carbone

Il voto favorevole della maggioranza del Parlamento europeo (495 a favore, 137 contrari) alla proposta di risoluzione 2024/2721 – RSP sul continuo sostegno dell’Unione Europea all’Ucraina per garantire, cito testualmente, “la vittoria”, conferma che l’Europa è ormai entrata in un regime di guerra dal quale non intende uscire. Da buoni marxisti non possiamo non rilevare che il regime di guerra è ormai globale e destabilizza anche i punti centrali del sistema mondo. Dalla prospettiva occidentale continua a sopravvivere la tesi di fondo secondo la quale un eventuale crollo del fronte ucraino espanda le velleità russe di intaccare i confini dell’Alleanza Atlantica. La dottrina militare occidentale è intrisa di considerazioni che non sono suffragate da dati empirici solidi neanche ricavabili dalla Storia. La verità è che siamo entrati in una fase nella quale la guerra è normalizzata come unico strumento di risoluzione delle controversie tra popoli, nonostante fior fiori di convenzioni, carte costituzionali, accordi e risoluzioni di organismi sovranazionali ad ogni livello prodotte negli ultimi ottant’anni dicano il contrario e insistano sulla necessità di attivare la leva della diplomazia.

Nella risoluzione approvata a margine della riconferma di Ursula von der Leyen alla Presidenza della Commissione europea, la prima tifosa della guerra come unico orizzonte politico per pacificare le controversie, il Parlamento europeo sostiene anche l’esito del recente vertice della NATO e ribadisce la sua posizione secondo cui l’Ucraina è su un percorso irreversibile verso l’adesione alla NATO, chiedendo agli Stati membri di aumentare il loro sostegno militare all’Ucraina per tutto il tempo necessario e in qualsiasi forma necessaria.

 

La crisi dell’assetto globale del modello di sviluppo capitalista ci fornisce le coordinate per interpretare la congiuntura alla quale stiamo assistendo: sono tornate le “bestie feroci” di cui, ormai oltre un secolo fa, avvertiva la compagna Rosa Luxembourg scrivendo del primo conflitto mondiale. C’è stato un tempo in cui, venti anni fa, le pratiche della guerra globale hanno monopolizzato il discorso pubblico e, tra gli effetti più brutali, hanno represso ogni afflato pacifista, macinato e travolto dall’instaurazione di concetti ideologici come gli “Stati canaglia”, come l’Afghanistan dei talebani e l’Iraq di Saddam Hussein, considerati pericolosi per la sicurezza nazionale degli Stati a capitalismo avanzato occidentali e, in particolare, degli Stati Uniti. Come rilevato da autorevoli studiosi e osservatori internazionali, oggi queste pratiche non funzionano più e i conflitti armati, a partire da quello in Ucraina e il genocidio in Palestina, stanno sfuggendo al controllo occidentale. Ci troviamo in un’epoca di transizione egemonica dove altre potenze osservano alla finestra e lavorano in silenzio. Ne è testimonianza la notizia che ieri 23 luglio a Pechino, in Cina, una dozzina di organizzazioni palestinesi, tra cui Hamas e Al-Fatah, hanno siglato un accordo per mantenere unitariamente il controllo su Gaza al termine dell’occupazione israeliana. Si tratta di un accordo storico, non messo in risalto dalla stampa occidentale (e men che meno da quella italiana), dal quale si evincono due elementi: la collaborazione tra Hamas e Al-Fatah dopo diciotto anni dalla presa del potere di Hamas a Gaza e la presa di coscienza di raggiungere una “unità palestinese globale nel quadro dell’OLP” con l’aiuto di Egitto, Algeria, Repubblica Popolare Cinese e Federazione Russa. Si tratta di una svolta, nel quadro del conflitto israelo-palestinese, che restituisce vitalità all’Autorità Nazionale Palestinese, sostenuta da tutte le organizzazioni del Paese, e smonta la retorica occidentale della dittatura di Hamas in Palestina, che è il pretesto su cui si regge l’azione militare israeliana a proseguire l’aggressione ai palestinesi facendo carta straccia del diritto internazionale e di tutti gli accordi, a partire da quello di Oslo del 1993.

 

In questo contesto l’Europa si trova al centro del fuoco. Rispetto alle guerre condotte, e qui scomodo due giganti come Negri e Hardt, alla periferia dell’Impero, come quelle in Afghanistan e in Iraq, le attuali tensioni geopolitiche si trovano esattamente alle porte dell’Europa, di una Europa indebolita dall’assenza di qualsiasi iniziativa diplomatica terza che non sia la totale aderenza alle decisioni di Washington. Ma la crescente e dirompente militarizzazione della geografia dei blocchi non ha altro sbocco che nella permanente economia di guerra e nella erosione degli spazi di praticabilità delle lotte di emancipazione di classe, di genere e di razza. Certo, non ci si poteva aspettare uno scenario diverso dall’Europa con la rielezione, a capo delle istituzioni chiave della struttura comunitaria, di figure che nella scorsa legislatura hanno impostato l’azione estera dell’Unione in chiave imperialista e guerrafondaia: Ursula von der Leyen, Roberta Metsola, Pina Picierno. La testardaggine con cui l’Unione continua a voler navigare nel pericoloso mare bellico davanti casa non solo non fa altro che relegare il ruolo della prima potenza industrializzata del pianeta a scendiletto delle velleità delle grandi reti e degli accordi economici del capitale internazionale ma, proprio a causa di ciò, contribuisce a mettere a rischio la sicurezza (non intesa solo nel senso della securizzazione) degli Stati nazionali che subiscono inermi la riconfigurazione degli spazi del capitale soprattutto nell’ambito delle politiche industriali. Mentre, infatti, negli Stati Uniti l’economia è pienamente militarizzata e organizzata sulla base delle esigenze del complesso delle industrie legate agli armamenti e alla logica della securizzazione, in Europa la spesa pubblica è prevalentemente concentrata sul piano sociale. Spostare ingenti risorse per garantire la corsa al riarmo avrà degli effetti catastrofici sul benessere delle popolazioni, anche in considerazione del fatto che l’economia europea non è preparata ad essere una economia di guerra ed è già ampiamente provata da due crisi (quella economico-finanziaria del 2008 e la pandemia di Covid-19) che hanno destrutturato la società europea, in particolare quella dell’area mediterranea.

 

Che fare di fronte a un regime di guerra che, inevitabilmente, tocca tutti? Una prospettiva che le sinistre possono riprendere è quella di un nuovo internazionalismo, che forzi gli attuali blocchi identitari, mostrandone le contraddizioni, e traduca in nuovi dispositivi le eterne lotte che portiamo avanti dai tempi di Seattle e Genova: ecologiste, antirazziste, anticapitaliste, femministe e di carattere subalterno. Il sistema globale è attraversato da fratture e frammentazioni importanti degli spazi del capitale, e le classi dominanti tentano di governarle applicando il regime di guerra globale come strumento privilegiato di governance. Le sinistre dovrebbero essere capaci di contrapporre a questo tentativo egemonizzante la costruzione di un linguaggio di liberazione nuovo, eppure simile a quello del secolo scorso. Se è vero che la stagione di Seattle e di Genova, di Porto Alegre e di Firenze si è conclusa da tempo, quella stagione ci offre una indicazione politica rilevante di metodo: espandere le lotte oltre i confini nazionali e costringere le istituzioni internazionali a misurarsi con queste, esattamente come accadde più di venti anni fa a Seattle e a Genova.

 

Un altro mondo è – ancora – possibile.

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