di Floriana Mastandrea
“Arrendersi o perire!”, fu la parola d’ordine intimata dai partigiani il 25 Aprile del 1945 e nei giorni successivi. Cominciava così la lotta finale per liberare l’Italia da nazisti e fascisti, dopo vent’anni di dittatura e cinque di una guerra che aveva coinvolto il mondo intero. La resistenza militare e politica contro il governo fascista della Repubblica Sociale Italiana e l’occupazione nazista, era partita l’8 settembre 1943, dopo lo sbarco degli Alleati a Salerno. Con la proclamazione dell’armistizio, letto alla radio dal generale Badoglio, scattò il piano tedesco per il disarmo delle truppe italiane: 1.090.000 uomini dislocati in Italia e 900.000 nei Paesi occupati, esercito notevole, ma male equipaggiato e con armamento inadeguato. Con la pubblicazione sui giornali (9 settembre) della notizia dell’armistizio, re e generali erano orami in fuga verso Pescara, dove si sarebbero imbarcati per Brindisi e Roma era sta abbandonata, senza organizzarne la difesa: l’unico che si impegnò fu il generale Caviglia, rivale di Badoglio. Nacque il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), si cominciarono a formare le prime organizzazioni partigiane, che avrebbero dato vita a forme di Resistenza armata e civile, nei restanti 20 mesi di guerra. Intanto a Salò i nazisti di Hitler, crearono la Repubblica sociale italiana per meglio operare sul nostro territorio. In base all’orientamento politico si formarono: le Brigate Garibaldi (comuniste), Brigate Matteotti (socialiste), Brigate Mazzini (Partito Repubblicano) Brigate Giustizia e Libertà (Partito d’Azione), le Brigate Fiamme verdi, Brigate del popolo e di Osoppo, di ispirazione cattolica. ll 25 aprile 1945 il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI), il cui comando con sede a Milano, presieduto da Alfredo Pizzoni, Luigi Longo, Sandro Pertini, Emilio Sereni, e Leo Valiani, proclamò l’insurrezione generale in tutti i territori ancora occupati dai nazifascisti, chiedendo a tutte le forze partigiane attive nel Nord Italia del Corpo Volontari della Libertà, di attaccare i presidi fascisti e tedeschi, imponendo la resa. Stabiliva, tra l’altro, la condanna a morte di tutti i gerarchi fascisti, incluso Benito Mussolini, che sarebbe stato raggiunto, mentre camuffato da tedesco, tentava la fuga in Svizzera, e fucilato, insieme alla sua amante, Claretta Petacci, tre giorni dopo, il 28 aprile 1945, anche se la dinamiche sul punto sono leggermente discrepanti. Secondo Walter Audisio, detto Colonnello Valerio, il capo del fascismo e della Repubblica sociale italiana, catturato il giorno precedente a Dongo, dai partigiani della 52 Brigata Garibaldi, Luigi Clerici, fu ucciso a Bonzanigo, in provincia di Como e qualche ora dopo fu fucilata anche la Petacci. Entro il 1° maggio, tutta l’Italia settentrionale fu liberata: Bologna il 21 aprile, Genova il 23 aprile, Venezia il 28 aprile. Il termine effettivo della guerra sul territorio italiano, con la resa definitiva delle forze nazifasciste all’esercito alleato, si ebbe solo il 3 maggio, come stabilito formalmente dai rappresentanti delle forze in campo, durante la cosiddetta resa di Caserta, firmata il 29 aprile 1945. La data del 25 aprile rappresenta il culmine della fase militare della Resistenza e l’avvio effettivo di una Costituente da parte dei suoi rappresentanti, che porterà prima al referendum del 2 giugno 1946 per la scelta fra monarchia e repubblica, e poi alla nascita della Repubblica Italiana, fino alla stesura definitiva della Costituzione. Su proposta del presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, il re Umberto II, allora principe e luogotenente del Regno d’Italia, il 22 aprile 1946 emanò un decreto legislativo luogotenenziale che dichiarava il 25 aprile 1946 festa nazionale a celebrazione della totale liberazione del territorio italiano. La ricorrenza venne celebrata anche negli anni successivi, ma solo il 27 maggio 1949, con la legge 260 (“Disposizioni in materia di ricorrenze festive”), fu istituzionalizzata stabilmente come festa nazionale. |
Le donne nella Resistenza
“Non consideratemi diversamente da un soldato che va su un campo di battaglia”, dice una delle testimonianze del documentario del 1965 di Liliana Cavani, La donna nella Resistenza.
Che fossero staffette, lavandaie, infermiere, tiratrici scelte, senza le donne non si sarebbe compiuta la Liberazione, anche se non si parla a sufficienza del grande contributo che le hanno fornito. Renata Viganò, scrittrice che vi prese parte come staffetta e infermiera, ne: L’Agnese va a morire, racconta di come le partigiane fossero e siano tuttora considerate come delle aiutanti degli uomini, principalmente perché il loro lavoro nella Resistenza, fu soprattutto di cura e riproduttivo. Ma nonostante questi diffusi pregiudizi, le donne, oltre a rischiare la vita proteggendo e facendo da staffette, fondarono squadre di primo soccorso per aiutare i feriti e gli ammalati, contribuirono alla raccolta di indumenti, cibo e medicinali, si occuparono dell’identificazione dei cadaveri e dell’assistenza ai familiari dei caduti. Erano brave a camuffare armi e munizioni: quando venivano fermate dai tedeschi, riuscivano spesso ad evitare la perquisizione, dichiarando compiti importanti da svolgere, familiari ammalati, bambini affamati da accudire. Citando la sfera familiare, le donne parlavano una lingua universale, capace di suscitare sentimenti e sensibilità nascoste. Mentre gli uomini venivano richiamati alle armi, le donne dovettero sostituirli nell’industria e nell’agricoltura, lavorando soprattutto nel settore tessile, alimentare e industriale, nella catena di montaggio, nei pubblici impieghi e nei campi, dove affrontavano anche le attività più faticose di solito riservate agli uomini. Oltre 55 mila donne combatterono nella Resistenza, molte imbracciarono anche il fucile e presero parte ad attentati e agguati e molte furono coloro che venero torturate e uccise. Utilizzando le armi, le donne, invasero all’epoca un mondo prettamente maschile: per necessità e per una giusta causa.
Le staffette percorrevano chilometri in bicicletta, a piedi, talvolta in corriera e in camion, pigiate in un treno insieme al bestiame, per portare notizie, armi e munizioni, sotto la pioggia e il vento, tra i bombardamenti e i mitragliamenti, a rischio ogni volta di cadere nelle mani dei nazifascisti. Quando l’unità partigiana si avvicinava a un centro abitato, era la staffetta ad entrare in paese per prima per assicurarsi che non vi fossero nemici e dare il via libera ai partigiani. La figura della staffetta fu il ruolo più riconosciuto, per la pericolosità e l’importanza. Una delle staffette, medaglia d’oro al valor militare, è Carla Capponi, partigiana vice comandante di una formazione operante a Roma, tra gli organizzatori dell’attentato di Via Rasella, scomparsa nel 2000. Stefanina Moro,invece a soli 17 anni fu catturata e torturata a morte dai nazifascisti. Non diversa la sorte di Irma Bandiera, giovane bolognese che dopo aver aderito al Partito comunista, entrò nella Resistenza, con il nome di battaglia “Mimma”. Il 7 agosto del 1944, a seguito dell’uccisone a Funo (bassa bolognese), da parte del Movimento di Liberazione, di un ufficiale tedesco e un comandante delle brigate nere, nella rappresaglia che ne seguì, fu arrestata, insieme ad altri due, e rinchiusa nelle scuole di San Giorgio, isolata dai compagni. Irma resistette alle torture, senza mai parlare, preservando così molti suoi compagni. La mattina del 14 agosto, una persona informò i parenti che il suo corpo inanimato si trovava sul selciato vicino allo stabilimento della ICO, fabbrica di materiale sanitario. “Mimma” venne lasciata in vista dagli aguzzini per una giornata, come disumano monito. Poi fu portata all’Istituto di Medicina Legale di via Irnerio, dove un custode, amico della Resistenza, scattò le foto del viso devastato dalle torture. Venne infine sepolta alla Certosa, accompagnata dai familiari e qualche amica. La federazione bolognese del PCI, il 4 settembre 1944 pubblicò un foglio stampato in clandestinità, nel quale si ricordava il senso altamente patriottico del sacrificio di Irma e si incitavano i bolognesi ad intensificare la lotta contro i nazifascisti.
Nelle realtà geo-politiche create nel corso della guerra di liberazione, le donne ricoprirono anche ruoli istituzionali. È il caso di Gisella Floreanini, punto di riferimento per gli antifascisti italiani, prima donna in Italia con un incarico governativo nella Repubblica partigiana dell’Ossola, tra il settembre e l’ottobre del 1944. Fu responsabile dei Gruppi di difesa della donna e Commissario all’assistenza e ai rapporti con le organizzazioni di massa della Repubblica dell’Ossola. Nei “40 giorni di libertà” della Repubblica, divenne Presidente del Comitato per l’organizzazione delle donne. Alla fine del conflitto venne nominata componente della Consulta Nazionale e in seguito, eletta deputata alla Camera. Un’altra donna che nella Resistenza ricoprì ruoli politici, fu Nilde Iotti. Giovanissima, seguì le orme del padre, morto quando lei era ancora adolescente, e si iscrisse al PCI (Partito comunista italiano). La sua prima funzione nella Resistenza, fu quella di porta-ordini, poi di responsabile dei gruppi di difesa della donna, essenziali nella raccolta di indumenti, medicinali, alimenti per i partigiani. Dopo il Referendum del 2 giugno 1946, Nilde Iotti fu eletta in Parlamento, prima come deputato e poi come membro dell’Assemblea Costituente e contribuì a creare l’articolo 3 della Costituzione italiana, in cui si sancisce l’uguaglianza dei cittadini. Ci duole aver menzionato solo pochissimi dei tanti esempi, ma riteniamo siano emblematici anche per tutte le altre donne a cui qui non abbiamo potuto dare spazio. Ci ripromettiamo di farlo, un giorno. Intanto ricordiamo sempre che, se oggi siamo liberi di pensare, agire e dire tutto ciò che vogliamo (sempre nell’altrui rispetto, s’intende, sebbene qualcuno tenda a fare molta confusione e parli a vanvera), è grazie a questi eroi che, per consentirci tutto questo, hanno dato la vita liberandoci dalla tirannia e regalandoci la democrazia, bene prezioso, da preservare con ogni mezzo. Ricordiamoci di non dimenticarlo: mai!
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