di Floriana Mastandrea
Presentazione ad Avellino de: L’antifascismo a Lacedonia 1943-46, di Rocco Pignatiello
“L’antifascismo è un moto dell’anima, una sensibilità morale e culturale, capace di respingere odio e intolleranza: essere antifascisti vuol dire rifiutare il razzismo e accogliere l’altro come fratello. Essere antifascisti vuol dire combattere la battaglia contro chi, speculando sulla crisi sociale, tenta di far regredire moralmente, culturalmente e politicamente, il nostro Paese”. Lo ha detto Vincenzo Calò, presidente Sezione ANPI Sud durante la presentazione de: L’antifascismo a Lacedonia 1943-46, promosso dalla Camera del Lavoro Territoriale CGIL Avellino, con l’ANPI provinciale. “Essere antifascisti oggi, vuol dire esercitare la memoria, ricordando ciò che è stato il fascismo e con esso la dittatura, le torture, gli assassinii, le guerre, che oltre alla lunga scia di sangue, hanno portato distruzione e miseria, per scongiurare che possa ripetersi. Anche il Sud, seppur non organizzato come il Nord con la Resistenza, ha dato il suo enorme contributo di sangue alla liberazione dal nazifascismo: ricordiamo, ad es., la strage di Matera, che il 21 settembre 1943 insorse per prima contro i nazifascisti (perirono 26 insorti), le 4 giornate di Napoli (dal 27 al 30 settembre 1943) o l’eccidio di Caiazzo, in provincia di Caserta, dove il 13 ottobre 1943, i tedeschi trucidarono 22 civili inermi (4 uomini, 7 donne e 11 bambini).
Oggi, a causa di personaggi che propagandano odio, intolleranza, mito dell’autocrazia e dell’uomo forte, il fascismo è di nuovo un pericolo in agguato: la Resistenza non è finita. Se un tempo all’ANPI erano iscritti i partigiani che, combattendo contro i nazifascisti, ci hanno restituito la libertà, oggi è fondamentale che ognuno diventi partigiano difendendo i valori antifascisti e la Costituzione”. Calò, nell’elogiare il ruolo femminile nella lotta al nazifascismo, ha anche ricordato la figura di Marisa Ombra (nel 2006 nominata Grande ufficiale della Repubblica), autrice de La bella politica, in cui testimonia l’esperienza di partigiana, come staffetta, la sua adesione al PCI e ai Gruppi di difesa della donna, in seguito nell’UDI, nella cooperativa editrice di Noi donne e infine, vicepresidente nazionale dell’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani).
“Quando Gramsci diceva che la storia insegna ma non ha scolari, intendeva mettere in guardia contro una memoria troppo corta, che ritiene di poter fare a meno di una coscienza storica, indispensabile invece, affinché si impari dal passato per non reiterarne gli errori”.
“Il lavoro di Rocco Pignatiello è un libro ben scritto per diversi motivi”, ha commentato nel suo intervento Margherita Faia, docente presso il liceo scientifico P.S. Mancini di Avellino: “La lettura appassiona e mette in moto una serie di richiami letterari, cinematografici (penso al film “Gli anni ruggenti” di Luigi Zampa) che fanno in modo di contestualizzare i fatti narrati e al contempo stimolano collegamenti con la Storia dell’Italia fascista e post-fascista, in una osmosi spazio-temporale molto efficace, che nobilita e rende indispensabile, per la costruzione dell’umano divenire, il contributo della storia locale. Il metodo con cui l’autore procede nella presentazione degli eventi, mi ha ricordato quello dello storico latino Tacito (sine ira et studio), soprattutto perché il lavoro di Rocco è intellettualmente onesto, storiograficamente impeccabile, ed è evidente da parte sua la cura posteritatis, come afferma Tacito nel proemio alle Historiae, vale a dire la preoccupazione che le generazioni future conoscano il passato, per vivere il presente in modo consapevole e costruire un futuro che si rinsalda su fondamenta civili”.
Con l’annuncio dell’armistizio dell’8 settembre 1943, la dissoluzione dell’esercito, l’occupazione tedesca e l’avanzata anglo-americana, inizia il periodo più drammatico della Seconda guerra mondiale. La guerra, col suo carico di devastazione e ferocia arriva ovunque, Lacedonia compresa, dove alla caduta del regime, il degrado economico, culturale, sociale, è evidente nella carenza di strade, fognature, acqua. Come ha sottolineato Giovanni Capobianco, presidente dell’ANPI Avellino: “La maggior parte della popolazione era analfabeta, viveva in condizioni precarie, prevalentemente di agricoltura, quando aveva la rara fortuna di possedere del terreno, ma era priva dell’ausilio di mezzi moderni. Talvolta si era mezzadri. I pochi salariati fissi lavoravano nelle masserie dei grandi proprietari terrieri e costituivano, nella vicina Puglia, la forza più combattiva del movimento dei lavoratori. Erano curatoli, gualani, sottogualani, operai, garzoni, braccianti avventizi, tutti deboli e ricattabili. Potevano accampare le competenze richieste e la propria forza fisica, ma non quella di spingere il proprietario a meccanizzare, ricercare sementi più adatte, sperimentare nuove rotazioni delle colture, per aumentare la resa del terreno, ai fini di incrementare il salario e ridurre l’orario lavorativo a 8 ore. Richieste ricadenti fin dall’inizio del Novecento nelle piattaforme dei braccianti pugliesi e che, per i lavoratori di Lacedonia, rappresentavano una grande aspirazione. Ma il proprietario terriero preferiva mantenere basso il costo del lavoro, piuttosto che investire in tecnologia o in nuovi modi di produzione.
Il 29 settembre 1943, dopo la ritirata dei tedeschi, nella vicina Calitri scoppiò una rivolta antifascista nella quale rimase ucciso l’ammassatore e altre due persone, mentre il 30 settembre, una rivolta popolare spontanea esplose anche a Lacedonia e un’altra a Bisaccia. In seguito scoppiarono rivolte ad Andretta e a Frigento, dove furono bruciati i registri dell’ammasso e l’anagrafe. Dirigenti contadini organizzarono le masse: Giacobbe a Flumeri, Nicola Pascucci e Vincenzo Maellano a Frigento, Michele Capodilupo a Castel Baronia, Domenico Faretra a Grottaminarda. Questi moti aprirono la strada alla costruzione della democrazia, basata sull’inclusione delle classi subalterne, relegate ai margini delle istituzioni fasciste e prefasciste”.
“Nelle rivolte, un ruolo fondamentale lo ricoprirono le donne, – ha evidenziato Franco Fiordellisi, Segretario generale della CGIL Avellino. I sistemi di controllo e repressione causati da guerra, inflazione, carenza di beni di prima necessità e mercato nero, avevano inasprito i rapporti tra le autorità fasciste e la popolazione, tanto da innescare proteste capeggiate dalle donne, contro i podestà e gli amministratori, in molti Comuni dell’avellinese. L‘8 febbraio 1942 a Lacedonia, un centinaio di donne, guidate da Filomena Tenore, che le aveva convinte recandosi presso le loro case, prese d’assalto il municipio per protestare contro il razionamento del pane e la sua scarsa qualità, costringendo il commissario prefettizio a fuggire dalla sede municipale”.
Nel secondo dopoguerra a Lacedonia si costituiscono i nuovi partiti: la Democrazia Cristiana, il Partito d’Azione, il Partito Comunista. La DC irpina, costituitasi ad Avellino a novembre del 1943, è fragile e subalterna alle forze liberali e fasciste, le quali tentano di restaurarsi in partiti che ripropongono il vecchio sistema clientelare, occupando le istituzioni provinciali, gli enti locali, i luoghi di potere, con l’appoggio delle forze alleate. A Lacedonia la DC nasce reazionaria: un gruppo di proprietari (più per mentalità che per possedimenti), la vede come opportunità per difendersi dai comunisti, reprimere la fame di terra dei contadini poveri e tutelare interessi personali e familiari. Trae la sua forza dal sostegno della Chiesa, che intravede nel Partito Comunista la messa in discussione del suo radicamento secolare tra le classi umili, tanto che nel 1946 il vescovo di Lacedonia (Cristofaro Carullo), che nel 1942 aveva accolto Mussolini come “uomo della provvidenza”, sferra un attacco contro coloro che: “si danno ciecamente in braccio al Comunismo bolscevico ed ateo, che mira con idee spaventosamente sovversive, a scalzare dalle fondamenta la civiltà cristiana […] ” fino ad incitare i fedeli a difendersi, se necessario, intraprendendo le “gloriose gesta dei Crociati”. Il PdA e il PCI si preparano alle elezioni con azioni di propaganda e pedagogia: entrambi chiedono l’epurazione dei vecchi dirigenti fascisti, condizione necessaria ai cambiamenti auspicati e sostengono la scelta della repubblica contro la monarchia. Nicola Vella (futuro sindaco), responsabile del PdA dell’Alta Irpinia, progetta un partito liberal-socialista rivolto a operai e contadini, con gli obiettivi prioritari di educare le masse alla libertà democratica repubblicana e sottrarle ad ogni forma di sfruttamento. Il PCI di Lacedonia costruisce la sua organizzazione sulla linea del partito nuovo, tracciata dal segretario nazionale Togliatti: il partito nuovo deve costruire da protagonista uno stato democratico e introdurre elementi di socialismo nella società italiana. Da quanto l’Autore è riuscito a ricostruire (mancano verbali e documenti dell’epoca), si evince che a Lacedonia il PCI, dove è confluita la Lega proletaria, nasce con un’organizzazione provvisoria, a marzo del 1944, ha un segretario provinciale provvisorio, Giordano Bruno, aderisce al CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) e ha un suo rappresentante nella giunta.
Ancora Fiordellisi: “Il PCI ebbe carattere di massa. In quasi tutte le sezioni della provincia, la maggioranza dei compagni e dei simpatizzanti, era costituita da contadini e operai, che diedero vita alle prime organizzazioni sindacali, prime fra tutte quelle di Altavilla e Tufo. Ad Avellino nacque la Camera Confederale del Lavoro. Fondamentale per la presa di coscienza dei diritti dei meno abbienti, fu l’influsso di Giuseppe Di Vittorio, il sindacalista autodidatta di Cerignola, le cui idee di giustizia ed eguaglianza, attecchite nei paesi della Capitanata, si diffusero con successo anche nei confinanti paesi irpini”.
A Lacedonia il PCI è il riferimento dei contadini poveri, delle figure dai mille mestieri, dei braccianti, che nello scenario politico che si va delineando, scorgono la possibilità di riprendere le lotte per la terra e la libertà, successive alla Prima guerra mondiale. Tra il 1944 e il 1945 i decreti promulgati da Fausto Gullo intendono inaugurare un nuovo rapporto tra masse rurali e Stato, non più ostile, tanto che Gullo sarà considerato il “ministro dei contadini”. La maggioranza della popolazione si attende dall’amministrazione comunale il recupero delle terre usurpate dalla borghesia rurale dell’Ottocento e la distribuzione delle terre incolte o mal coltivate, che i decreti Gullo promuovono. “La terra a chi lavora”, sono le nuove parole d’ordine.
Nel referendum istituzionale tra monarchia e repubblica del 2 giugno 1946 per scegliere la forma di governo dopo la fine delle Seconda guerra mondiale e la disfatta del regime fascista, la repubblica ottiene il 54,27% dei voti, contro il 45,73 della monarchia. Al Nord, la repubblica ottiene il 64,8% dei voti, mentre al Sud il 64% dei voti va alla monarchia. Fa eccezione Lacedonia, dove la repubblica ottiene il 60,3% dei voti contro il 39,6% della monarchia: uno dei pochi Comuni in provincia di Avellino (13 su 113), nonché dell’intero Mezzogiorno, in cui prevale la repubblica. Il risultato di Lacedonia è anomalo, tanto più perché alle elezioni per l’Assemblea costituente, chiamata ad elaborare la nuova Costituzione, vince la sinistra con il 51,9%, riconfermando la vittoria alle amministrative tenutesi il 31 marzo, mentre nel resto della provincia, vincono la DC, i partiti conservatori e filo monarchici. Cosa aveva determinato questa eccezione? La vittoria è il risultato della presa di coscienza di contadini, braccianti, piccoli artigiani ed intellettuali che, dopo il crollo del regime fascista, che ha portato il Paese alla guerra, alla fame, alla disfatta, alla miseria materiale e morale, comprendono che devono diventare padroni del proprio futuro.
Il lavoro è un excursus nella Storia attraverso le vicende di coloro che l’hanno determinata e personaggi meno noti, ma significativi, come Raffaele Fusco, il portavoce – coscienza critica dei contadini, che a rischio della vita, si sono ribellati al fascismo. Nel contempo assume una valenza di stringente attualità, come Rocco Pignatiello, già professore di Lettere e saggista, ci conferma: “Il libro è rivolto a chi crede che un altro futuro è possibile. Un futuro non dominato da guerre, pandemie, riscaldamento globale, ingiustizia sociale, crisi delle istituzioni democratiche e della politica. E che pertanto mira a ripensare a un nuovo modello di sviluppo, che sia rispettoso dell’ambiente, della natura. È questo progetto di futuro che mi ha spinto a porre domande alle donne e agli uomini, che durante la Seconda guerra mondiale e soprattutto dopo la guerra, hanno dovuto affrontare uno dei periodi più bui della storia del nostro Paese. Le loro risposte, contenute nel libro, possono aiutarci a progettare questo cambiamento”.
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