La Resistenza dimenticata. Il diario del Sergente Maggiore irpino Domenico Tulimiero nel libro di Carmine Clericuzio.

 

di Ranieri Popoli

 

Dopo i saggi dedicati a Giuseppe Persiani e a Ottorino Rizzo la trilogia degli antifascisti “ atipici” curata dallo storico irpino Carmine Clericuzio si conclude con il toccante lavoro editoriale “ Domenico Tulimiero – Il Sergente maggiore di Avellino che si oppose al nazifascismo” , recentemente pubblicato da “Delta Edizioni”.

Sono testi che potrebbero avere anche una loro lettura sinottica perché con essi l’autore oltre ad aver contribuito a riportare alla luce le storie meritorie di tre personaggi irpini “dimenticati” ha offerto allo stesso dibattito storico-politico un meritevole contributo di riflessione su cosa sia realmente stata nel suo complesso la Resistenza e quali approcci debba contenere uno studio aggiornato sull’antifascismo.

Il canovaccio narrativo questa volta Clericuzio lo sviluppa attraverso l’originale riproposizione del libro pubblicato in tarda età dal protagonista, un diario di prigionia scritto durante le terribili esperienze nei lager nazisti tra il 1943 e il 1945.

Nel leggerlo sembra di saltare dalle pagine di Anna Frank a quelle di Primo Levi tale è la profondità e la percezione del narrato.

Lo storico irpino, dopo un sintetico quanto efficace inquadramento degli avvenimenti che interessarono l’Italia e l’intera Europa in quel drammatico periodo bellico, presenta l’opera di Tulimiero attraverso una riproposizione logica e critica dei passi salienti che consente di “leggere” ancor più dal di dentro il pensiero e i sentimenti dell’eroico sergente maggiore.

E’ un racconto, suddiviso in dieci capitoli che rappresentano le tappe del percorso di prigionia, di quanto drammaticamente accaduto ma anche una straordinaria riflessione di natura politica che ci fa capire la progressiva maturazione e presa di coscienza che lo porta a conoscere la nuova dimensione democratica che stava maturando in lui e in tanti militari italiani che avevano seguito eguale sorte.

L’otto settembre segna l’armistizio con gli Alleati ma non la fine della guerra, la quale nel nostro Paese segue un corso a dir poco strano in quanto l’Esercito regio, che aveva comunque combattuto la sporca guerra fascista, di fatti era senza comandi e struttura organizzata, per cui chi si trovava sotto la linea “Gustav” del Garigliano, cioè nella parte liberata del territorio italiano, rispondeva al Sovrano rifugiatosi in quel di Brindisi, mentre chi era nelle regioni ancora occupate del Centro-Nord aveva tre possibilità di scelta: passare con le formazioni partigiane, arruolarsi nell’esercito occupante tedesco oppure essere fatto prigioniero e seguire la via che conduceva ai campi di lavoro nazisti.

A questo punto è doveroso spiegare che lo status di prigioniero grazie a un personale intervento di Hitler fu trasformato in “internato”, cioè rinchiuso, in modo da non sottostare alle direttive degli accordi di Ginevra che offrivano alcune fondamentali garanzie di tutela e di trattamento ai prigionieri di qualsiasi esercito belligerante.

Questo perché oltre al bisogno feroce di vendetta per chi dopo l’Armistizio era ritenuto inopinatamente dai nazisti un traditore, in quanto il dittatore tedesco dopo la caduta del fascismo del 25 luglio 1943 non riconosceva il nuovo Stato a guida monarchica ma quello fantoccio della Repubblica sociale di Salò guidato dal redivivo e subalterno Mussolini, vi era la crescente necessità di forza lavoro nelle miniere e nelle fabbriche tedesche , considerato che gli occupanti ( ebrei, zingari, oppositori, ecc. ) finivano sempre più tragicamente nei campi di sterminio.

Tulimiero all’indomani dell’otto settembre si trova, insieme ad altri commilitoni, nella striscia di terra della Francia meridionale occupata dall’esercito tedesco per cui immediatamente viene fatto prigioniero e spedito in un campo di concentramento e di lavori forzati della Germania.

 

Le testimonianze personali danno vita a una duplice lettura degli accadimenti che consente di tenere insieme la soggettività esprienziale – il punto di vista del protagonista – e l’inquadramento contestuale che ritorna utile per una comprensione dei processi su scala più ampia.

Clericuzio non si limita a un’estrazione seriale del volume di Tulimiero in quanto offre al lettore una traccia logica ricostruttiva che concorre a comprendere il processo di maturazione del protagonista, simile a quella di tanti altri suoi commilitoni, capendo che non si è di fronte a episodi isolati, seppur diffusi casi di coscienza individuale, ma a qualcosa che assume il profilo di una dimensione che scardina luoghi comuni collocati tra l’oblio e la sottovalutazione storiografica.

Interessante in questo senso è capire l’approccio che i nazifascisti hanno verso i prigionieri militari di guerra considerati ingiustamente, cioè anche sotto l’aspetto giuridico statuale, dei traditori, in quanto era ben noto che pur svolgendo di fatti la guerra fascista essi avevano elevato giuramento di fedeltà alla Corona, la quale aveva essa stessa esautorato dopo un ventennio di complicità il Presidente del Consiglio in carica Benito Mussolini.

Questa vicenda dei prigionieri di guerra, poi internati, diventa la cartina di tornasole per fare il punto su un aspetto dirimente della vicenda fascista nel nostro Paese.

A differenza della Germania nazista, dove di fatto era stato costruito un regime compiutamente totalitario dal punto di vista istituzionale, in Italia si era creata una strana e per certi aspetti ambigua diarchia tra il Sovrano, che faceva riferimento a uno Statuto liberale e il Duce al quale era stato consentito di sovrapporre ad esso leggi dittatoriali ma senza che queste avessero rango costituzionale.

Una cosa tipicamente all’italiana. Hitler, che nella sua inarrestabile ascesa aveva concentrato in sé tutti i poteri costituzionali, ragionava in tale ottica per cui non andando troppo per il sottile considerava la Monarchia e l’Esercito a guida badogliana dei traditori e per rafforzare tale tesi impone a Mussolini la creazione della Repubblica Sociale Italiana perché interpretasse la continuità costituzionale del regime fascista anche dopo l’otto settembre 1943.

La “smilitarizzazione” dei prigionieri dell’Esercito italiano e il successivo annullamento identitario servono si a fornire forza lavoro nei campi di concentramento e nei luoghi di produzione germanica ma costituisce anche un atto politico per disconoscere l’Italia sotto l’egida del Sovrano, anche se di fatto anch’essa subalterna al potere militare degli Alleati.

Illuminanti in questo senso sono le prime pagine del lavoro di Clericuzio laddove si riportano le drammatiche fasi iniziali di questa vicenda e si percepisce lo smarrimento e la mortificazione dei soldati italiani nel vedersi “disarmati” del loro onore e del loro status.

Ma le privazioni in seguito saranno ancora più pesanti in quanto esse attraverso il morso corrosivo della fame, dei maltrattamenti e della mancanza di cure li porteranno a subire gli stessi trattamenti degli sventurati dei campi di sterminio, comportando un ‘ indicibile vessazione fisica e psicologica che sarà tatuata sul loro corpo come una seconda pelle.

In questo quadro di orribile condizione Tulimiero trova, oserei dire con spirito resistenziale gramsciano, la forza di scrivere alla propria famiglia con un linguaggio di rara delicatezza sforzandosi lui a non far soffrire i suoi cari in perenne apprensione per la sua sorte.

Dal campo di Ludwighafen si viaggia alla volta di quello di Saarbruken, un centro minerario ancora non raggiunto dalla crescente offensiva aerea degli Alleati. Qui la condizioni sembrano essere leggermente meno proibitive anche se resta intatto il sistema di trattamento e considerazione dei prigionieri.

Questa fase coincide con l’arrivo delle festività natalizie e del nuovo anno e il filo conduttore è l’inarrestabile volontà di Tulimiero di mettersi in contatto con la propria famiglia, inseguendo, in tal modo, una sorta di comunione celebrativa dei riti religiosi che era abituato a condividere con i la moglie e i propri figli.

Cosa che riuscirà a fare anche materialmente nelle tenebre di quel luogo di disumanità conseguendo la santa comunione, insieme ai suoi commilitoni, non tralasciando un anelito di speranza per la fine delle ostilità belliche e delle loro sofferenze.

Ma altri episodi rasentano un grottesco cinismo allorquando un ufficiale, come tanti altri suoi colleghi, muore semplicemente per fame, perché non nutrito nemmeno con il minimo necessario. La beffa si consuma quando al graduato italiano viene concessa un’esequie pubblica e perfino l’onore delle armi da parte di un drappello tedesco.

Nella primavera inoltrata del 1944 finalmente Tulimiero riceve una lettera della moglie e la gioia per tale agognato evento si associa istintivamente al desiderio di riceverne subito altre.

Fa specie che nel mentre il campo inizia a trovarsi al centro di un progressivo bombardamento dell’area, si registri la disumana accentuazione di sevizie e privazioni da parte degli aguzzini nazisti, e come Domenico Tulimiero riesca a isolarsi da tutto questo e a trovare la serenità per dedicare i suoi pensieri alla corrispondenza della sua amata congiunta.

Non è un estraniarsi ma il voler anticipare una fuga, un’evasione da quel luogo infernale dove la maggiore sofferenza non è data dai maltrattamenti che si subiscono quotidianamente ma dalla lontananza nello spazio e nel tempo dalla sua famiglia.

Con il trascorrere del tempo il nervosismo che serpeggia nelle fila dei prigionieri diventa sempre meno trattenuto e questo perché le provocazioni da parte delle maestranze minerarie tedesche diventano sempre più incessanti.

Ma anche perché, saputo dello sbarco in Normandia, si percepisce un accumulo di ritardo da parte degli Alleati nel travolgere con la loro avanzata il nemico nazista.

Agli inizi di agosto le riflessioni di Tulimiero si fanno sempre più intense, e di questo se ne deduce nel suo libro-diario allorquando realizza delle annotazioni che in qualche modo riguardano un certo futuro della sua famiglia e di riflesso anche quello del Paese.

E’ come se in quel luogo maledetto Domenico avesse affrontato una sorta di catarsi liberatoria che lo ha portato con naturalezza a non essere più eterodiretto dai vecchi dettami che lo avevano condizionato nel suo modo di agire e di pensare.

Il 18 marzo 1945 muta il destino degli internati in quanto gli Alleati sono alle porte e l’esercito sovietico sta stringendo in una morsa sul versante orientale una Germania in via di capitolazione per cui i militari prigionieri, di diverse nazionalità, sono nelle condizioni di rendersi “liberi”.

Il titolo dell’ultimo capitolo “Il viaggio di ritorno” trae, però, in inganno in quanto prefigura un felice epilogo, ma non sarà così. Infatti è quello che racconta la lunga marcia della vita di Domenico Tulimiero, realizzata in condizioni di estremo pericolo e di grande sofferenza umana.

A piedi, insieme al residuo drappello di commilitoni, si prosegue verso sud e dopo aver attraversato territori tedeschi in fiamme, ardui passi svizzeri e sperduti villaggi tirolesi, tra duri peregrinaggi, stenti e continui rischi, si arriva a toccare di nuovo il suolo italiano presso Trento per poi imbarcarsi verso Imperia dove quasi irriconoscibile incontra finalmente i suoi cari.

Alla data del suo arrivo, quella del 6 maggio 1945, si ferma anche il suo diario nel mentre l’Europa completamente devastata si appresta a rilento a riprendere la sua vita normale e il nostro Paese a iniziare una nuova storia che lo avrebbe riportato alla democrazia e alla libertà.

Tulimiero è scomparso nel 1995, cinque anni dopo la pubblicazione del suo diario che destò subito grande interesse negli ambienti editoriali e della critica storica-letteraria.

Oggi grazie a quel prezioso resoconto e al meritorio lavoro di ricerca di Carmine Clericuzio, si propone una continuità di memoria e un’attualizzazione critica sulla vicenda storica più in generale.

L’onestà intellettuale ci deve far dire, però, che un lavoro ben strutturato come questo ci offre non pochi spunti di riflessione sulla questione storica e contemporanea dell’antifascismo in Italia e di riflesso del suo portato rispetto al processo costituente democratico del dopoguerra.

Non si tratta di semplificare una vicenda complessa come quella della Resistenza ma di realizzare uno sforzo di analisi interpretativa che offra a questo snodo della vita democratica del Paese l’opportunità di riflettere sulla maturazione del processo di coscienza democratica che ha interessato tanti italiani che avevano sostenuto e/o subìto il regime fascista.

E il capitolo degli militari italiani e poi nello specifico quello degli internati è certamente uno di quelli che meritano una particolare attenzione in tal senso.

La stessa sola rievocazione dei fatti eroici di Cefalonia, di tanti episodi, come quelli che hanno interessato l’Arma dei Carabinieri nell’Italia durante l’occupazione nazista, non è sufficiente, a mio avviso, ad entrare dentro lo studio storiografico, prima che politico, di tale questione.

Il non aver voluto indossare gli alamari nazisti e fascisti repubblichini sapendo di consegnare all’ignoto il proprio destino e l’aver scontato le sofferenze e le privazioni dei lager da parte di chi non era stato messo nemmeno nella condizione di poter scegliere, non è un fatto da inquadrare solo in un contesto di eroismo ma qualcosa che a che fare con l’inizio di presa di coscienza sulla reale natura di quei regimi e l’inizio di un approccio rispetto agli sconosciuti valori della democrazia e, quindi, allo stesso processo resistenziale.

Quello che vorrei precisare in questa parte conclusiva di questa riflessione è che il doveroso e giusto mito della Resistenza partigiana, che ha dato linfa al successivo processo costituente repubblicano, proprio alla luce di quello che carsicamente dal 1994 e in modo sempre più evidente sta accadendo in questi ultimi anni, proprio perché è in atto questo strisciante riscrittura del patto costituzionale ci sarebbe bisogno di estenderlo, di aprirlo oltre il riconoscimento formale, stando dentro lo stesso concetto di Patria, proprio perché la nostra è quella di tutti , a differenza di chi, invece, la fa coincidere solo con quella etica e ideologica .

L’anticomunismo di Berlusconi non è stato solo il tentativo di rifare il muro di Berlino in Italia per una contrapposizione manichea elettorale tra Destra e Sinistra, ma qualcosa che è stata percepita come una rivincita per chi non era stato inserito nel patto costituente democratico e che vede nel “decisionismo” e nel “separatismo ” la via maestra per riuscirci.

Si badi bene che questo non riguarda i nostalgici o i retrò della Destra italiana ma quella maggioranza silenziosa che ha sempre covato nella pancia reazionaria di questo paese e che ha tessuto le sue trame dal secondo dopoguerra ad oggi.

Quelle del diario di Tulimiero non sono pagine pregne di riflessioni politiche o valutazioni intellettuali ma le spontanee o meditate “esternazioni” esistenziali di un uomo semplice che, insieme alla sua generazione risparmiata dalla guerra, dimostra il suo antifascismo in forme essenziali, esattamente come Giuseppe Persiani e Ottorino Rizzo.

Ecco perché quella di Clericuzio è una vera e propria trilogia biografica antifascista.

Per questi motivi occorre essere grati allo storico irpino il quale in un momento molto delicato della vita democratica del Paese, mentre l’identità culturale è sotto continua offensiva, ha avuto l’intelligenza e il coraggio di offrire nuove e avanzate ragioni al bisogno di essere sinceri italiani antifascisti.

 

 

 

 

 

 

 

 

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