
di Fabio Carbone
Il decreto di San Valentino del 1984, con il quale il governo Craxi decise il taglio della scala mobile, è il più importante punto di svolta nella storia economica e politica italiana, anticipando di fatto l’egemonia neoliberale che avrebbe ridefinito il rapporto tra capitale e lavoro nei decenni successivi. Il taglio alla scala mobile non fu una mera scelta tecnica di politica economica, ma un vero e proprio spartiacque ideologico, che segnò la fine dell’idea che la protezione dei salari fosse una priorità dello Stato e l’inizio di una politica orientata alla “moderazione salariale” in nome della competitività e della stabilità economica.
Enrico Berlinguer e il Partito Comunista Italiano avevano ragione. L’opposizione del PCI fu netta e combattuta con tutti gli strumenti disponibili, compreso il referendum del 1985, nel quale la linea di Craxi venne confermata dalla maggioranza degli italiani. Enrico Berlinguer denunciò il provvedimento come un attacco diretto ai lavoratori e una concessione al capitale, avvertendo che avrebbe accelerato il processo di precarizzazione e di erosione del potere d’acquisto. A distanza di quarant’anni la Storia gli ha dato ragione, le sue preoccupazioni appaiono più che fondate: l’indebolimento del meccanismo di adeguamento automatico dei salari ha lasciato i lavoratori progressivamente più esposti agli effetti dell’inflazione e alla compressione del salario reale.
L’abolizione della scala mobile non è stato un atto isolato, ma il primo passo di una lunga trasformazione che trovò nei successivi governi tecnici e di centro-sinistra (Amato, Prodi, D’Alema) ulteriori accelerazioni. Il pacchetto Treu nel 1997 e la legge Biagi nel 2003 furono passaggi chiave nel processo di flessibilizzazione del mercato del lavoro, una flessibilità che si è tradotta spesso in precarietà e frammentazione della classe lavoratrice. Non si può non rilevare, e qui tanto ne potremmo dire, la responsabilità della sinistra riformista che non solo ha accettato ma promosso questa traiettoria, legittimando una visione del mercato del lavoro in cui la centralità dell’impresa ha progressivamente marginalizzato il ruolo delle tutele collettive, come l’abominio giuridico del Jobs Act.
La conseguenza principale del decreto di San Valentino è stata la disintermediazione tra classe lavoratrice e istituzioni politiche: i sindacati hanno perso progressivamente peso, il conflitto sociale è stato neutralizzato in nome della concertazione e della moderazione, e il mondo del lavoro è entrato in una fase di arretramento rispetto ai diritti acquisiti nei decenni precedenti. La retorica della “modernizzazione” si è rivelata essere, nella sostanza, una strategia di indebolimento del potere contrattuale del lavoro nei confronti del capitale.
A quarant’anni di distanza, il quadro appare desolante: l’Italia è uno dei pochi paesi europei in cui i salari reali sono stagnanti o addirittura in calo rispetto agli anni Novanta. L’assenza di una scala mobile o di meccanismi equivalenti ha lasciato i lavoratori in balia delle dinamiche inflazionistiche e della concorrenza globale senza strumenti di difesa efficaci. La crescita della precarietà, l’assenza di un salario minimo legale e l’indebolimento della contrattazione collettiva sono i frutti avvelenati di quella scelta politica.
Il paradosso è che, mentre il neoliberismo ha mostrato i suoi limiti e il suo carattere distruttivo sul piano sociale, la narrazione dominante non è mai stata realmente messa in discussione. Anche la sinistra, nella sua componente maggioritaria e socialdemocratica, sembra aver interiorizzato il dogma della moderazione salariale come condizione necessaria per la crescita economica, senza offrire un’alternativa credibile. Il risultato è un sistema economico bloccato, in cui il lavoro non è più un motore di emancipazione, ma spesso una condizione di vulnerabilità permanente.
Noi siamo convinti che la politica sia conflitto e abbiamo il dovere di riaprire il fronte della lotta per il lavoro, non in termini difensivi ma con un progetto di trasformazione radicale. Ciò significa rimettere al centro la questione salariale e la redistribuzione della ricchezza, contrastare il ricatto della precarietà, e recuperare una visione del lavoro che non sia subordinata alla logica della competitività a ogni costo.
Il taglio della scala mobile è stato l’inizio di un processo di subordinazione della politica economica alle esigenze del capitale. Se si vuole invertire questa traiettoria, è necessario ripensare radicalmente il ruolo dello Stato nell’economia, recuperando strumenti di intervento pubblico capaci di riequilibrare il rapporto tra capitale e lavoro. Il conflitto sociale esiste ancora, per quanto sindacati proni alle classi dirigenti e Presidenti del Consiglio vari ne mettano in discussione le ragioni. La sfida, per noi, è riconoscerlo e agirvi in modo incisivo, perché la storia dimostra che le conquiste sociali non sono mai il risultato di compromessi al ribasso, ma di lotte, aspre e serrate.
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