di Luca D’Errico
La pandemia ci ha confermato che arrestare le attività umane genera effetti benefici nell’ambiente in cui gli umani stessi vivono. Ad oggi, però, la reazione dei giornali italiani in tal proposito è piuttosto ingenua e superficiale. Ciò che è stato possibile finora è stato solo “scattare un’istantanea” di quello che un paio di mesi di rallentamento sono in grado di far succedere. Nel frattempo, però anche la trasformazione ecologica si è arrestata. Chi vive, tuttora e necessariamente, in prossimità dei luoghi più inquinati di questa terra, oltre al rischio contagio sconta di l’impossibilità di trasformare la propria condizione. L’ecologia, in quanto scienza dell’interazione tra esseri viventi e ambiente, deve fare il conto con noi umani e non può far finta che da un giorno all’altro non esistiamo più.
I primi anticorpi mancanti di questa fase sono quelli legati all’incapacità di riconoscere la grandezza della questione. Di sicuro bisogna intervenire nella crisi sanitaria, ma nella consapevolezza che i più recenti studi indicano che il rischio di una pandemia è insito almeno in diverse attività umane. Il passaggio di virus da animale a uomo è condizionato dalla deforestazione, che spinge l’uomo a contatto con specie animali con cui generalmente non ha contatto e, reciprocamente, gli animali selvatici a contatto con l’habitat umano. Inoltre gli allevamenti intensivi, data la vicinanza tra i capi di bestiame, sono un’incubatrice perfetta per la mutazione genetica di virus che potrebbero così passare agli uomini anche in ragione del bisogno di smaltire liquami.
La mobilitazione mondiale portata avanti dagli attivisti di Friday for future attraverso una radicalizzazione delle rivendicazioni di Greta Thunberg sono sicuramente importanti a maggior ragione oggi. Queste dovranno conciliarsi con l’azione delle maggiori Organizzazioni Non Governative attive nell’ambito ecologico al fine di sensibilizzare le classi dirigenti e formarne altre capaci di rispondere diversamente alla maggiore crisi della nostra epoca, che è ecologica.
La comunicazione mediatica tende però a ripiegare il tema all’interno del paradigma sanitario e nella cornice ancora più generalizzata di una concezione economica della globalizzazione. In questo schema prevale, nel mondo stesso di chi si interessi all’ecologia, la tendenza alla distribuzione di notizie adatta al pronto consumo per un pubblico vasto. Prendiamo ad esempio una notizia che avrebbe del miracoloso fino a qualche giorno fa: si legge che gli affluenti del fiume Sarno, il più inquinato d’Europa, stiano tornando limpidi, almeno ad occhio nudo. Considerare straordinario che l’acqua sia tornata trasparente sa di paradosso. Il fatto che si torni a vedere la limpidezza dell’acqua non fa che ben sperare; la domanda però è: per quanto? La questione problematica è che nessuno vuole immaginare che i pochi contributi ecologici che la serrata generale sta provocando potrebbero svanire appena ci sarà il rompete le righe. Le pressioni contro un controllo sociale più netto in questo ambito rischiano di cedere nello stesso momento in cui ci sarà bisogno di “ripresa economica”, nascondendo il prezzo da pagare a questa ripresa: già si dice che una certa produttività non può essere arrestata in eterno.
Se guardiamo bene il dato storico, tutte le crisi portano con sé una riduzione delle emissioni inquinanti. Magicamente, in queste fasi il petrolio torna ad essere un bene meno indispensabile di quello che si credeva il giorno prima. Ma contestualmente inoltre si genera “austerità”: nel nostro mondo questo però generalmente significa una riduzione dei profitti per chi è padrone della catena di produzione, la quale però viene solitamente ripagata da una ristrutturazione del compromesso sociale con le classi meno abbienti, a svantaggio di questi ultimi. La dinamica di un’economia che si gonfia e poi scoppia mostra che dopo ogni crisi i danni ambientali hanno subito un aumento costante, per ragioni che in fin dei conti sono ovvie: la ripartenza avviene seguendo le stesse regole di prima ma vivendo una fase di liberalizzazione giustificata dallo stesso bisogno di recuperare gli standard di produttività precedenti. Ciò che resta è però lo scarto: si fa in modo che riprenda la produzione anche dei rifiuti, di ciò che non può essere riutilizzato. Questa produzione avviene anche a livello sociale: ogni crisi porta con sé un gruppo di persone che iniziano ad essere considerate un “di più”.
Chi è costretto a restare a casa, di fatto, vive una vita necessariamente simile a sé stessa da giorni: vivere così è vivere in un ordine caratterizzato principalmente dalla monotonia. Metaforicamente: un arresto domiciliare. Così come le nostre abitudini tendono necessariamente a cristallizzarsi, tende a solidificarsi il modo di funzionare della società. Dopo un primo shock, con la necessità di bloccare temporaneamente alcune forme industriali per perseguire il soddisfacimento dei bisogni materiali minimi delle persone, non si indebolisce, ma si rafforza la tendenza ad una visione di un certo tipo di società che considera come standard del suo funzionamento il livello di consumo. Per questa visione del mondo, il consumo deve rimanere costante, se possibile deve crescere. A ben vedere, questa pandemia non fa che rafforzare tale paradigma. La vera crisi, in questa concezione del mondo, starebbe nel constatare che un determinato modello di distribuzione diseguale del benessere non funziona più e quindi non è legittimo.
Le istituzioni hanno finora ragionato nell’ottica del “prima si chiude, prima si riparte” prendendo atto senza bisogno di modificare il fatto che “mangiavamo petrolio” prima (in quanto tutta la linea di produzione industriale è ancora fortemente basata sul suo utilizzo) e, anche se adesso il consumo si è ridotto lo faremo di nuovo. Inoltre, se da un lato l’accusa di complotti internazionali rappresenta una testimonianza velleitaria da parte di chi non è ai posti di comando in questo momento, dall’altro risulta in realtà evidente la possibilità che dall’emergenza “riemerga” letteralmente lo status quo ante bellum. Con questo s’intende che l’eventuale delegittimazione degli organismi internazionali potrebbe dissolvere qualsiasi accordo internazionale sul clima e spianerebbe la strada alla deregolamentazione dal punto di vista ecologico. Non solo quindi il rischio di una crisi, ma la possibilità che un’intera visione del mondo che ambisca al progresso ecologico possa indietreggiare.
Nemmeno si può accettare che per effetto dello stato di emergenza, problemi “visibili” dal punto di vista ecologico diventino da un giorno all’altro “invisibili” solo perché costretti al focus sull’evoluzione della pandemia. La presa di coscienza di una politica di più largo respiro dovrebbe essere quella di considerare questo evento come una circostanza, da ora in poi nemmeno troppo straordinaria, del mondo in cui si vive. Del resto una presa d’atto parziale del fatto che “il mondo non sarà più come prima” risulta evidente ai più, ma per un motivo molto semplice. La pandemia ha stravolto i precedenti equilibri economici e ha dimostrato che è possibile segnare un limite, almeno momentaneo, all’accumulazione capitalistica anche a livello planetario. Vale a dire che la tendenza a “civilizzare” il mondo attraverso le leggi del libero mercato dovrà scontrarsi con eventuali arresti economici globali o fare in modo di prevenirli puntualmente. Tutto dipenderà da quanto riuscirà a passare l’idea che questa non è una dinamica provvisoria, ma un fatto incontrovertibile del sistema economico attuale, continuamente esposto al rischio di un cataclisma, peraltro, in una visione ecologica, mai esterno al sistema chiuso di cui tutta l’umanità fa parte.
Prendendo atto inoltre della necessità di un’ecologia radicale, ha senso riformare la società anche partendo dall’attuale crisi, invece di dimenticarla. Si può prestare attenzione proprio a quegli aspetti che raccontano di un mondo che, nella momentanea cristallizzazione della realtà, mostra parziali segnali di cambiamento. Se a salvaguardarsi da sola riesce la natura stessa, facendo a meno degli umani, noi non possiamo fare a meno di noi stessi e dobbiamo fare in modo che le micro-svolte viste finora (acque trasparenti) possano diventare grandi trasformazioni (acque potabili e prive di rischi biologici). Se ci sono dati che dimostrano che alcune cose sono cambiate grazie alla diminuzione dell’attività antropica, bisogna chiedersi: “Cos’ha modificato di tanto la situazione da un giorno all’altro?” Ma anche ed ancor di più: “Com’è possibile ripetere condizioni simili senza causare restrizioni inaccettabili?”
L’ecologia politica può farsi portatrice del carico di esperienze apprese anche nelle circostanze paradossali entrate a far parte del vissuto comune. La riduzione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla natura appropriabile è incontrovertibilmente la strada da seguire, ma a renderlo possibile non sarà una pandemia, ma la trasformazione che l’umanità saprà avviare su sé stessa e nel rapporto con l’ambiente. In questo senso, dovremo in parte anche sostituire i paradigmi scientifici dominanti che sono, in questo periodo, quelli economico-sanitari, in altri termini cercando di sovvertire le tendenze alla “normalizzazione”.
Occorrerebbe inoltre segnare la fine di un’umanità che vede le cose in rapporto a sé stessa e ai propri vantaggi economici e sociali. L’idea che un fiume sia pulito perché non ci mette le mani l’uomo è una sorta di “appropriazione della natura al contrario”, per la quale la salvezza del mondo sarebbe la fine stessa dell’umanità. Bisogna invece riuscire a mantenere pulito un fiume nonostante l’uomo sia in relazione con l’acqua che vi scorre. L’acqua è il più grande esempio del “bene comune” che l’uomo riceve dalla natura, che non può essere devastato dal comportamento distruttivo di alcuni attori sociali a discapito di altri. Un’operazione linguistica importante sarebbe quella di considerare la sconfitta della pandemia non come la vittoria di una guerra, ma come risultato di una grande operazione di resistenza. Se una resistenza ecologica è immaginabile, dovremmo pensare che quella che si sta affrontando in questo periodo è la costruzione di una barricata contro le crisi future.
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