Tra allucinazioni e felliniani amarcord  diario e riflessioni tra  serio e  faceto di un cittadino spaventato al tempo del covid 19

di Raffaele Scala

 

Ora che ci siamo lasciati alle spalle anche questa triste e malinconica Pasqua,  ormai giunti al quarantesimo giorno di clausura forzata e con l’infelice,  sconsolante prospettiva di  altre due settimane – aspettando con ansia il probabile 4 maggio liberatore – da trascorrere rinchiusi nelle nostre case, come animali in gabbia per colpa di questo maledetto corona-virus che da troppo tempo gironzola per le strade e nelle case del mondo provocando contagi e morti a non finire, comincio ad avere le allucinazioni. Si, proprio io che non ho mai sognato, neanche per sbaglio, comincio ora a vedere film mentali ad occhi aperti. Tra quelli frequenti mi rivedo uscire di casa accompagnato dal mio fedele Ciccio, adorabile, viziato mezzo volpino, cane meticcio che ci teneva compagnia fin dalla sua nascita, percorrere a piedi quei millecento metri che mi separano da Piazza Borrelli, dove aveva sede l’edicola del paese. Era bello passeggiare con lui lungo i marciapiedi di via Canneto, proseguire per l’antica via Petraro, fermandomi ogni tanto a salutare qualcuno, magari scambiare quattro chiacchiere, fingendo di non sentire l’abbaiare di Ciccio insofferente alle non preventivate fermate, per poi proseguire il felice cammino. Era il nostro appuntamento questo, mio e di Ciccio, riservato al sabato e alla domenica, quando ero libero dal lavoro, quello che mi portava da anni a Napoli , dal lunedì al venerdì, verso il Centro Direzionale, dove aveva sede l’ufficio in cui ero impiegato.

Dico ero, non solo in quanto questa buona abitudine è stata soppressa dal covid 19, ma perché da tempo il nostro amato cagnolino, dopo sedici anni di felice convivenza, ci ha lasciato per andare a giocare verso i suoi infiniti prati verdi. E soppressa è pure l’unica edicola, uccisa dal vizio di non leggere, soprattutto di non comprare giornali da parte dei miei acquisiti concittadini. Triste condizione ampiamente condivisa da buona parte del nostro italico popolo, considerando la falcidia delle edicole, ormai oasi di cultura sempre più rarefatte, quasi introvabili nel raggio di diversi chilometri.

Era bella Piazza Borrelli, con la sua chiesa imponente del tardo Ottocento, rifacimento di una più vecchia cappella dedicata a Santa Maria della Carità, (infantilmente datata ad un fantomatico XV secolo, quando il luogo era una desolante palude), il suo moderno edificio comunale, con l’ampio, sontuoso piazzale, luogo consacrato alle iniziative politiche, a sagre e feste di paese. Un avveniristico  Palazzo di Governo che un tempo storpiava con il resto vetusto abitato, fino a quando altre moderne, felici costruzioni non si sono aggiunte, dando un senso e un tono all’insieme. E piacevole è l’ampia agorà di fronte alla chiesa, con i suoi ombreggianti platani, da sempre luogo d’incontro e di scontro, di inciuci e di congiure, ma da tempo relegato ad ospitare sulle sue panchine soltanto vecchi stanchi ed annoiati e sfaccendati del dolce far niente. Tranne la domenica, quando si riempie, si riempiva, d’allegria per le entrate e uscite dei fedeli dall’amata chiesa, con baldi ragazzi ad attendere, nel sole di mezzogiorno, le fresche donzelle uscire dalla messa delle undici. Una festa collettiva, un rito antico e sempre moderno che si ripete ad ogni cerimonia: dalla semplice messa al matrimonio, dal battesimo alle comunioni, rallegrando lo stanco, monotono trascorrere del tempo di questa quieta campagna.

Altri ora sono i luoghi d’incontro e di congiure delle varie bande, politiche e non, altre strade, altri angoli, altre piazze, dove pure i giovani amano soffermarsi, riunirsi, raggrupparsi. Poco o niente in verità, come si è accennato in precedenza, è rimasto della salubre piazza, nata da un più antico, anonimo incrocio: oggi è allietata da due moderni, sontuosi bar che raccolgono vasti consensi non solo tra la sammaritana gioventù, ma anche dai vicini comuni, ed è modernizzata da un nuovo, privato edificio che raccoglie uffici e locali commerciali di varia natura.

Mentre leggo con orrore che nell’America di Trump muoiono ormai come mosche, come in Spagna, in Gran Bretagna, in Germania e in altre 180 Nazioni, tutte accomunate dallo stesso male, penso a quello che succede nel nostro Paese con i suoi 25mila morti e 182mila contagiati. Mi terrorizzo da solo pensando che in Italia, dal 21 febbraio al 10 marzo sono rimaste uccise da un alieno chiamato corona-virus complessivamente 631 persone, mentre nei successivi  25 giorni sono morte oltre 700 persone AL GIORNO, con punte di 969. Peggio ancora, ah malsano egoismo maschile, mi assale molesto il pensiero che il 70 per cento sono maschi e solo il 30 per cento femmine. Che questo covid 19 sia femmina incattivita da eccessiva astinenza?

Mi terrorizzano i numeri e le statistiche che vogliono i contagiati avere un età media di 62 anni e quelli morti gli 80, in quanto negli anta ci convivo ormai da molto tempo, seppure vicinissimo ai primi piuttosto che ai secondi, e pur godendo di buona salute, tremo al pensiero del contagio, di trasformarmi in uno di quei quattromila e più costretti a vivere nei reparti di terapia intensiva sperando di uscirne sani e salvi. Già mi spaventa la sola ombra di poter essere contagiato e dover per questo finire in quarantena, guardato a vista, se tutto va bene, dagli stessi familiari, con terrore, sicuramente con sospetto. Uno di quei poveri 182mila attaccati dall’osceno, maledetto alieno.

Mi consola il pensiero che nella mia campestre cittadina adagiata nella felice Valle del Sarno, dove ho messo radici ormai da quaranta lunghi anni, questo  pericoloso figlio di buona donna non ha attecchito. Gli unici due casi, verificatosi, uno il 1° aprile – sorta di amaro pesce d’aprile –  e il secondo tre giorni dopo, riguarda  due infermieri, il primo dipendente dell’ospedale di Torre del Greco, la seconda del nosocomio stabiese, sono stati entrambi colpiti a causa del loro lavoro nei rispettivi presidi, vittime di un sistema patrigno. Nella speranza che il contagio si fermi, rimane, nonostante tutto, una piccola Eden, un’isola nelle acque grigie dalle quali siamo  circondati, un mare di contagi e morte, tra le confinanti Castellammare,  Gragnano e Pompei. Un mare grigio a fronte di quello nero come l’inferno nel quale è precipitato il triangolo della morte grazie all’armata brancaleone che dirige alcuni, importanti, fondamentali Regioni d’Italia. Quando tutto finirà, si dovranno aprire molti processi su tante cose, non solo di ordine penale, ma sull’intera classe dirigente, o presunta tale.[1]  Un processo ai tanti scheletri nell’armadio del nostro capitalismo fatto di corrotti  e venduti al Sistema, di come la nostra politica non è stata al servizio dello Stato ma serva delle potenti lobby religiose, economiche e finanziarie, di fatto gli unici veri padroni del Bel Paese. Forse da tutto questo nascerà una Nazione migliore, una più compiuta Democrazia. Ma forse la mia è soltanto una pia illusione, un sogno destinato a rimanere tale. Se solo gli Italiani avessero memoria.   Chissà!

Sarà per questo che ormai la realtà mi è inguardabile e sogno ad occhi aperti la vita perduta. Vivo le settimane, i giorni, perfino le ore, come sospeso, cullato dalle mie visioni oniriche di felliniana memoria[2] giacché non mi lasciano andare avanti, come in quel film, dove ogni mattina ti risvegliavi ed eri sempre al giorno prima.[3] A me capita di essermi fermato al mio giorno zero, a  quel 20 febbraio, il mio giorno prima, quando ancora guardavamo e ascoltavamo con apatica sufficienza le pur allarmanti notizie  del lontano, immaginifico Catai lontano diecimila chilometri da noi, troppo lontano per interessarci, per preoccuparci, dimentichi della globalizzazione che tutto ravvicina, annullando luoghi, tempo e spazio, cullandoli e violentandoli nel palmo di una mano.

Che fare? Mi rimbomba nella mente la domanda, ma non è quella  amletica di Lenin, né quella dell’ormai dimenticato scrittore, suo connazionale.[4] Continuare a dondolarmi in questi sogni proibiti o svegliarmi e farla finita, tornando alla triste realtà? Riprendere a guardare  l’odioso notiziario delle 18, sempre più simile ad un appuntamento con il boia, con il suo carico di tristezza senza fine, le mille trasmissioni che ormai ventiquattro ore su ventiquattro ci sommergono di dati, fatti, misfatti di sempre più improvvisati esperti la cui utilità è quella di aumentare la già grave confusione che regna sovrana nella mia, nostra povera testa? No, meglio rituffarmi in quel paradisiaco 20 febbraio, lasciandomi accarezzare dalle onde del mar Tirreno, là dove bagna l’insenatura di Castellammare di Stabia, mia città natia e di mille antiche avventure, dalla piacevole visione della sua bella, alberata villa comunale, delle sue strade, quelle magnifiche e antiche, come le storiche piazze del Centro Storico, luoghi dell’epopea stabiese, con sullo sfondo la maestosità del sua bicentenario Cantiere Navale, pur esso ferito a morte.  Ma non meno dolce mi è la romantica via Pioppelle, laddove sorgeva, gloriosa, la nostra Botteghe Oscure, la mitica, piccola sezione del Partito Comunista Italiano di Enrico Berlinguer, una sezione intitolata al grande dirigente napoletano, Giorgio Amendola. E passandoci non posso non  ripensare  ai tanti compagni conosciuti, alcuni purtroppo scomparsi, come l’indimenticabile falegname, Raffaele Di Capua, Zi Rafele per gli amici e per tutti, come il povero Gennaro Fiorentino, per tutti, Nuvolari, disoccupato a tempo pieno e il burocratico, permaloso, Ciro Alfano, tutti strappati anzitempo all’affetto di quanti li avevano conosciuti.

Ricordo ancora quando ci presentammo, una fredda sera di febbraio di una vita fa, Salvatore Mazzuoccolo ed io, giovani, ambiziosi sociologi, forti della nostra cultura e del nostro passato di giovani comunisti forgiati negli anni Settanta, lui in quel di Pomigliano D’Arco ed io nella formidabile Stalingrado del Sud. Portammo la nostra esperienza, bevemmo del loro entusiasmo, come quello del giovane commercialista, Francesco Di Capua, futuro assessore nell’unica esperienza di governo vissuta, quando ormai il vessillo rosso era stato deposto dal fiero Achille. E non posso non citare anche Giovanni Di Somma, professore di Educazione fisica, il secondo consigliere d’origine comunista, futuro fondatore, con Michele Avellino, del primo e unico giornalino di sinistra mai pubblicato in Santa Maria la Carità, Palombella Rossa, uscito tra il 2006 e il 2007, periodico dei Democratici di Sinistra del Circolo, Giorgio Amendola. E di quel fiore rosso nulla è rimasto nel nuovo partito, diventato altra cosa. Spazzatura travolta dalla storia e diventata cronaca. Il colore sceglietelo voi.

Quante serate trascorse lì dentro, nel fumo del sigaro puzzolente di Zi Rafele, delle troppe sigarette fumate da tutti noi, delle inutile chiacchiere su programmi irrealizzabili in un paese dominato da poche potenti famiglie capaci di condizionare il voto nel modo in cui volevano. A questi individui, allora come oggi, come probabilmente anche domani e sempre, non importava il partito, considerato un optional, una taxi per gli ambiziosi di turno. Cambiavano le sigle, era ieri la Democrazia Cristiana, poi Forza Italia ed infine le liste civiche, ma mai i musicanti, sempre gli stessi, oppure i loro eredi o vassalli, valvassori e valvassini. Oggi toccava ad un gruppo e la prossima all’altro, ma mai si usciva dal cerchio, un cerchio mai spezzato. Erano tempi in cui ancora contavano i comizi di piazza, il volantinaggio porta a porta, l’uscire di notte per attaccare i manifesti politici, sapendo che era tutto inutile, ma più forte era la nostra caparbietà, pur sapendo che mai avremmo visto il Sol dell’avvenire. Non ci importava, eravamo pochi e soli e ci consolavamo infine bevendo birra e mangiando pizza. Eravamo felici.

Tutto finito, tutto lontano, racchiuso in quel felliniano sogno ad occhi aperti che non mi lascia, per sfuggire, invano, alla realtà ingrata di questo misterioso virus venuto da lontano, misteriosamente nato da un pipistrello nel mercato della lontana Wuhan, capoluogo del lontano Hubei, per me sconosciuto pianeta. Poi gli scienziati, o chi per loro,  prima o poi, diranno. Ma mentre i posteri studiano io vaneggio, allucinato, nel mio soliloquio, preso, inghiottito dal mio sogno ad occhi aperti, a quel 20 febbraio sempre più lontano, mentre inesorabile la realtà m’inghiotte, attratto senza speranza da quel maledetto bollettino delle 18. Aspettando, sperando, sognando……[5]

[1]Non si potrà, per esempio, non ragionare, su quanto è accaduto in molte, troppe Rsa (Residenze Sanitarie Anziani). Ho ancora davanti agli occhi l’orrore delle immagini di questi luoghi trasformati in gironi infernali, dove migliaia di poveri anziani malati,  molti, forse la maggioranza, incapaci di provvedere a sé stessi, sono stati lasciati morire per la scelta scellerata degli assessori alla Sanità di diverse Regioni. Tra le prime quella lombarda con  oltre duemila morti, rea di aver trasferito dagli ospedali centinaia di contagiati di covid 19 senza le dovute garanzia di assistenza medica. Non meno colpevoli i tanti direttori e dirigenti dei vari istituti per aver taciuto e nascosto quanto accadeva. In questo scandalo  emerge, su tutti gli altri istituti indagati, il famigerato Pio Albergo Trivulzio, già famoso nei primi anni Novanta per aver dato l’avvio a Tangentopoli, ponendo fine alla Prima Repubblica per costruirne, purtroppo, una peggiore. Il nuovo malaffare e l’improvvida gestione sanitaria porterà ad una nuova Repubblica dei capaci e degli onesti o tutto tornerà come prima?
[2]Amarcord (mi ricordo), film capolavoro di Federico Fellini del 1973, premio Oscar. Tra gli attori la grande, Pupella Maggio e Ciccio Ingrassia.
[3]È già ieri, film di Giulio Manfredonia, con Antonio Albanese e Fabio de Luigi, 2004
[4]Lenin: Che fare?, 1902, In Italia pubblicato da  Editori Riuniti, 1970

Nikolaj G. Cernysevskij: Che fare?, 1863, In Italia pubblicato da, Editori Riuniti, 1977
[5]Fortunatamente in questi ultimi giorni stiamo finalmente assistendo ad una curva discendente di contagiati e deceduti. Finalmente, dopo dieci giorni in cui i morti superavano costantemente i 700 morti al giorno, il 4 aprile scorso i deceduti sono scesi sotto questa fatidica soglia:681. Una curva ballerina, seppure al ribasso, con le sue oscillazioni tra 636  e 431 morti.  Meglio ancora dal 17 aprile, ormai assestati abbondantemente sotto i 500 morti, ancora troppi, ma la discesa continua. Costante il calo dei contagiati e dei guariti. Comincia la ritirata, inizia  la Vittoria? Al 3 maggio l’ardua sentenza.

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