di Floriana Mastandrea
Se una prima fase dell’emergenza, che comunque durerà ancora a lungo, si avvia a conclusione, da un’altra emergenza, non meno significativa, non siamo ancora usciti: ridisegnare una nuova umanità. La pandemia Covid-19 si è scatenata sulle nostre vite, sconvolgendole, costringendoci a cambiare abitudini, a rivedere la nostra organizzazione individuale e sociale, i nostri valori, che più spesso sono disvalori. Essere costretti a rimanere chiusi nelle nostre case, a non poter rivedere le persone più care, ma dover osservare il distanziamento sociale, temere il contagio che avrebbe potuto, e ancora può colpire chiunque tra noi, senza distinzioni di età, sesso o condizione sociale, ci ha fatto forse finalmente aprire gli occhi sulla nostra umana condizione di fragilità. Ci ha costretti ad aprire quegli occhi, per troppo tempo tenuti chiusi, o che si è preferito dischiudere su altro: guadagnare, accumulare, cercare di acquisire una posizione di rilievo, diventare persone di successo, acquistare begli abiti, gioielli, belle case, belle macchine. Quegli abiti, quelle macchine, quei gioielli, che ora non possiamo utilizzare, chiusi come siamo nelle nostre case, per molti trasformatesi in prigioni. Per altri, la costrizione a casa, si è rivelata quasi salutare: hanno potuto “conoscere” meglio la propria famiglia, dedicare tempo ai figli, ai compagni di vita, persino litigando. Anche dissentire, serve a conoscersi meglio e a trovare una mediazione, salvo condizioni irrimediabilmente già incrinate! Un temibile virus subdolo e sconosciuto, ci ha catapultati in una situazione del tutto nuova e inaspettata, mettendoci dinanzi ai nostri disvalori. Il nord che si ritiene più operoso e produttivo, non voleva chiudere e l’esempio di Bergamo, che doveva continuare a produrre a ogni costo, è stato devastante. Contagiati e morti in quantità tali, che mancava lo spazio per seppellirli e persino per cremarli: non dimenticheremo mai le file di camion dell’esercito che tristemente allineati, trasferivano le loro bare in altre città. Il dramma di quelle morti, è arrivato persino ad Ariano Irpino: Grazia Lo Conte, suocera di un giovane di 49 anni, Massimo Ciancio, prematuramente stroncato dal virus, ha scritto un’accorata lettera contro le autorità, responsabili di aver sottovalutato la pandemia. L’avidità di Bergamo e altre zone, in ultima analisi, ci riguarda tutti: chi in misura maggiore, chi minore. Se per avidità infatti, non si intende solo l’accumulo di denaro, ma anche un modus vivendi che riguarda tutto ciò che può piacerci: mangiare, bere, divertirci, avere sempre “fame di qualcosa”, in una sorta di perenne inquietudine, è arrivato dunque il momento di rivedere il nostro modo di vivere. Se, attendendo il ritorno alla cosiddetta normalità, siamo costretti finalmente a chiederci cosa sia la normalità e se il mondo che abbiamo costruito sia quello giusto, forse questo virus, nonostante il prezzo altissimo pagato, avrà avuto un senso. Per dirla con lo psicologo Robert Hopcke, nulla accade per caso, ma bisogna conferire il giusto valore alla causalità. Il fermo forzato delle nostre vite, di abitudini, negozi, fabbriche, deve indurci a riflettere. Dobbiamo considerare come abbiamo vissuto, come viviamo, come intendiamo la società e come consideriamo gli altri da noi, il resto dell’umanità. Quanta empatia, siamo stati in grado di provare finora verso chi, sofferente ci ha chiesto aiuto, quanto è rimasto del senso dell’umanità, che invece dovrebbe prevalere in ognuno? Mi duole dirlo, ma da come si erano messe le cose, ben poco! Non è finalmente il caso di riflettere sui valori che davvero meritano di essere al centro della nostra vita? Non i disvalori, ma la sensibilità, l’intelligenza, l’idea che un destino di fragilità ci accomuna, valori che mettono in primo piano la solidarietà. Ed è sulla solidarietà, sull’utilità di ognuno di noi, che bisogna puntare: aiutare chi è in difficoltà, sentire la sua sofferenza come propria ed essere solidale, non è forse il vero senso della vita? Siamo utili nella misura in cui siamo capaci di provare sulla nostra pelle le ingiustizie che subisce il nostro prossimo e se ci ribelliamo e facciamo il possibile per migliorare la sua condizione: finché ci saranno altri esseri umani che subiranno la fame, i soprusi, le torture, le ingiustizie, gli sfruttamenti, per arricchire o far star meglio una parte del mondo, non potremo dire di aver costruito un mondo a misura d’uomo, quanto piuttosto un mondo privilegiato per una minoranza e, di sofferenze, per la parte restante parte dell’umanità. Il cambiamento inizia dalla nostra coscienza: dobbiamo sentirne la necessità e perché accada, dobbiamo sapere cosa c’è dietro ogni scelta che facciamo, quanto incidono i nostri bisogni, spesso indotti dalla nostra stessa organizzazione sociale. Per la nostra avidità di “progresso, abbiamo sfruttato” indiscriminatamente anche il suolo, le acque, i cieli, e la natura ci ricambia, difendendosi con lo scioglimento dei ghiacciai, le alluvioni, gli tsunami. È tempo di un netto cambio di passo, di costruire una nuova società dei diritti, del rispetto e dell’uguaglianza: solo così potremo ridare speranza a un mondo in declino e rimettere l’uomo al centro di una ritrovata umanità.
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