Cambiare per superare la crisi.  Riformare la Sanità

 

Vincere il coronavirus richiede un cambiamento degli stili di vita e delle politiche osservate finora. Come ha detto papa Francesco  “non si può rimanere sani in un mondo malato”. Torna il tema del bene comune, della giustizia sociale e della lotta alla povertà, della cura del territorio e del rispetto che si deve alla natura e all’ambiente. Torna il tema del rilancio delle politiche pubbliche e della necessità di porre regole e limiti al mercato.  Non si può tornare a fare le cose di prima, né può valere la logica dei due tempi: oggi si affronta l’emergenza e domani vediamo che bisogna aggiustare.

Di sicuro non è più possibile continuare con la politica dei tagli alla spesa sociale, alla sanità e alla scuola. Nella sanità in dieci anni sono stati sottratti 37 miliardi che si sono tradotti in posti letti cancellati, in posti di terapia intensiva tagliati, in un abbassamento del livello qualitativo e quantitativo delle prestazioni erogate. Non regge più l’equazione della spesa sociale che diminuisce e delle spese militari che continuano ad aumentare e non  regge più il trasferimento di risorse dal pubblico verso il privato.

Nell’ emergenza virus non ha funzionato il rapporto tra lo Stato e le Regioni. La riforma del Titolo quinto ha prodotto confusione e disarticolazione.  Da una parte va fermato il progetto  di autonomia differenziata portato avanti dalle regioni del Nord (secessione dei ricchi) e dall’altra va impostata da capo la discussione sul regionalismo e sulle autonomie  riducendo il ruolo e le prerogative delle regioni, aumentando le competenze dei comuni e riconsiderando l’abolizione delle province.

Ha evidenziato gravi limiti l’assetto della sanità regionalizzata. Ci siamo trovati alle prese con tanti sistemi sanitari quante sono le Regioni sicché, di fatto, è venuto meno il principio della uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e della universalità del diritto alla salute.  Siamo già sul punto di rottura di ogni possibile idea di comunità nazionale. La Sanità non può più essere, perciò, un affare esclusivamente regionale. Serve ripristinare un effettivo ruolo di programmazione, di indirizzo, di controllo e di supervisione che spetta al Parlamento e allo Stato.

Contro la pandemia non è stata di aiuto la sanità privata e le realtà dove era stata indebolita la rete dell’assistenza territoriale sono andate maggiormente in difficoltà.  Ha mostrato grossi imiti il modello di organizzazione sanitaria incentrata sulla produttività e sull’aziendalizzazione,  in cui tutto si misura in base ad indicatori di ricavo e di profitto. Con fermezza occorre ribadire che non può più andare avanti la pratica di una sanità totalmente asservita alla politica attraverso la cinghia di trasmissione dei dirigenti e dei manager scelti e promossi  in base a criteri di appartenenza politica che vengono anteposti ai requisiti di professionalità e di competenza.

E’ un problema solo lombardo o riguarda anche altre realtà del Nord, del Centro (l’Umbria), del Sud. Non sono temi che riguardano anche la nostra Regione e più specificatamente la nostra provincia?

La sanità campana, reduce da anni di commissariamento conclusosi lo scorso dicembre, era in grave difficoltà già prima dell’emergenza. La Campania nel periodo dal 2012 al 2017 si è collocata all’ultimo posto per i LEA (Livelli essenziali di assistenza) e nel 2017 è risultata penultima appena prima della Calabria. In questi anni sono state lasciate a casa 45.000 unità lavorative e gli organici sono rimasti fortemente sottodimensionati con un calo della spesa per il personale sanitario pari a quasi il 20% ( da 3 miliardi e 265 milioni nel 2009 a 2 miliardi e 621 milioni nel 2018), a fronte di una media nazionale pari al 4%. Alla perdita di tante unità lavorative si sono aggiunti la chiusura e lo svuotamento di tanti presidi ospedalieri  come il Loreto Mare, il San Gennaro, l’Annunziata, Gli Incurabili, Agropoli, Bisaccia, Sant’Angelo dei L., lo stesso Frangipane di Ariano ed il degrado di tanti plessi sia in termini di tutela della sicurezza pubblica (vedi San Giovanni Bosco) sia in termini di edilizia e di impiantistica sanitaria. La Campania detiene tuttora  il primato per le “morti evitabili” essendo priva di una rete Stroke (ictus), di una rete Trauma e di una rete per le emergenze materne infantili.  Anche quando si poteva fare i risultati non sono stati esaltanti. La Corte dei Conti  ha certificato che la Campania ha speso solo un terzo dei 1,7 miliardi assegnati nel 2017 dal Cipe per l’edilizia sanitaria.  Nonostante i proclami di De Luca di essere mai più ultimi, la Campania è rimasta ultima in tanti settori dell’assistenza sanitaria. Il risanamento  del bilancio della sanità non ha prodotto miglioramenti percepibili, non ha portato più risorse ed è passato sulla pelle del diritto alla salute dei campani. Si è fatto un deserto ed è stato chiamato risanamento!

Non solo in Lombardia ma anche in Campania all’arretramento del pubblico ha corrisposto l’avanzamento dei  privati che hanno conquistato sempre più significative posizioni nella gestione di importanti e remunerativi segmenti di sanità pubblica: solo nel 2018 la spesa attraverso il privato è cresciuta rispetto al 2017 di 128 milioni per assistenza ospedaliera, specialistica ambulatoriale e assistenza riabilitativa e finanche  nel pieno dell’emergenza sono stati fatti provvedimenti che spostano risorse verso i privati.

Alla  emergenza covid è arrivato, dunque, un sistema sanitario stremato ed impreparato, con tanti presidi ospedalieri  che da luoghi di cura si sono trasformati in focolai di contagio (Ariano, Pozzuoli, Castellammare, le RSA, etc) e ancora una volta la Campania è rimasta ultima, come è accaduto per il numero di tamponi effettuati. La paura del default del sistema sanitario è la vera ragione alla base della politica del lanciafiamme e delle restrizioni attuate da De Luca. Alla fine il sistema tutto sommato ha retto perché i numeri del contagio sono risultati sostenibili. Ma non ci sono meriti speciali del sistema di governo campano perché, come in tutto il Mezzogiorno, la pandemia ha avuto un andamento  meno virulento. Ha retto la nostra regione così come hanno retto tutte le altre regioni meridionali.

Anche l’Irpinia ha patito in questi anni  una regressione dei livelli di assistenza sanitaria: servizi tagliati, ospedali chiusi, blocco delle assunzioni,  lunghe liste di attesa. Si è prodotta una divaricazione che ha visto concentrarsi l’attenzione sulla Città ospedaliera mentre si è venuto indebolendo tutto il resto, a partire dalla rete di prevenzione e di assistenza territoriale. Si è andato realizzando un sistema ” stile lombardo”  incentrato sulla ospedalizzazione, sulla desertificazione del territorio e su un consistente ruolo dei privati convenzionati. Non solo cliniche private, ma laboratori di analisi, di diagnostica,  centri di riabilitazione, Rsa. Il privato è arrivato a penetrare anche il pubblico attraverso il meccanismo delle esternalizzazioni e degli appalti assegnati a cooperative di infermieri e di addetti ai servizi. Non tiene l’idea che la sanità pubblica nella nostra provincia sia regredita perché, differentemente a quanto avveniva nel passato, non dispone più di adeguate protezioni politiche. Non si è mai prodotta una discontinuità tra il prima e l’oggi: il sistema è rimasto lo stesso, i meccanismi sono gli stessi  e in larga parte sono rimasti gli stessi anche i protagonisti. Il filo conduttore mai interrotto è stato l’invadenza della politica, di certa politica, che continua ad avere ancora oggi un ruolo di comando e continua a decidere le sorti!

Molta della emergenza coronavirus si è prodotta nei luoghi che avrebbero dovuto arginarla: i luoghi del contagio sono stati gli ospedali. A fronte di una mobilitazione del personale sanitario ospedaliero, spesso costretto ad operare in assenza dei necessari requisiti di sicurezza e senza le dovute attrezzature,  si è registrata la scomparsa dalla scena dei servizi territoriali di assistenza, dei distretti sanitari, dei presidi delle guardie mediche, degli stessi medici di base. Di fatto c’è stata una sospensione sul territorio dell’assistenza sanitaria con i cittadini privati di ogni riferimento.  Non può essere questa la sanità pubblica di cui c’è bisogno.

A seguito della emergenza sanitaria in atto si annunciano stanziamenti straordinari di risorse per la sanità, sia per le strutture e gli impianti che per il personale. Chi decide, come si decide, per fare cosa? E allora occorre riaprire il cantiere per ricostruire un confronto politico e civile e un movimento che torni a spingere per  fare le cose che servono. Come si coniuga il diritto alla salute in un’area del Mezzogiorno interno sottoposta a processi di diminuzione della popolazione, di invecchiamento e di desertificazione: è la domanda da cui bisogna partire. A partire da qui  occorre subito aggiungere un ulteriore interrogativo: quale è il rapporto ottimale che immaginiamo tra pubblico e privato?.  Di sicuro non può accadere, come è stato finora, che gli oneri restano a carico del pubblico e gli onori vanno al privato, che le emergenze vanno a carico del pubblico e i guadagni sono del privato. Quale è stato in Irpinia il contributo delle strutture private nella lotta al coronavirus? Malati covid in via di guarigione sono stati spostati in alcune strutture private: come sono state selezionate, quali sono i termini di servizio e quali i costi?

Dentro questa discussione occorre che la sinistra ci stia con le sue idee e con le sue proposte. Di seguito se ne indicano alcune:

  • Nella lotta al coronavirus in Irpinia ci sono stati errori, ritardi, sottovalutazioni; la fase 2 della lotta al covid non può essere gestita allo stesso modo in cui si è fatto finora: servono avvicendamenti e serve una cabina di regia presso la Prefettura;
  • l’ospedale è importante ma non può essere tutto. Accanto alla rete dei presidi ospedalieri occorre una rete di servizi territoriali, distretti e dentro i distretti gli ambulatori, i servizi, la prevenzione, la sicurezza del lavoro, la medicina dell’ambiente, l’igiene pubblica;
  • riqualificare i servizi di guardia medica dotandoli dei locali e delle attrezzature necessarie, stabilizzandone gli addetti  anche al fine di un impiego più continuativo negli altri servizi sul territorio; stabilizzare il personale della rete del 118 ponendo fine all’impiego di personale somministrato da cooperative spesso sottopagato;
  • rilanciare e qualificare il servizio di medicina di base incentivando l’associazionismo tra i medici per la promozione di ambulatori territoriali e per la creazione di servizi utili alla popolazione;  ridurre i massimali;
  • consentire il turn over ponendo fine alla pratica, oggi assai diffusa, di trattenere in servizio, con apposite convenzioni, i professionisti che hanno superato il limite di età, procedendo a nuove assunzioni e trasferendo e stabilizzando gli operatori sanitari oggi alle dipendenze di strutture private appaltatrici di servizi (cooperative); (nella sanità si avverte la necessità di un ringiovanimento, dell’avvento di forze fresche e di giovani anche al fine di abbassare  l’età media dei medici che oggi è di 56 anni );
  • la politica faccia un passo indietro; serve una sanità autonoma e non condizionata dalla politica e quindi manager scelti al di fuori delle tradizionali cordate politiche, dirigenti e primari selezionati in base a competenze e titoli e non per vicinanza politica.

La pandemia e la crisi che ne consegue ci mettono di fronte a sfide inedite. Niente potrà essere come prima, meno che mai nel modo in cui è chiamata a funzionare la Sanità.

 

                                                                                                 Associazione “Si Può Avellino”

 

Avellino, O1/05/2020

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