di Ranieri Popoli
Sinistra Italiana Avellino
Nella notte tra il 29 e il 30 settembre scorso il sito web del Ministero dell’Economia ha modificato la “Nota Aggiuntiva al Documento di Economia e Finanza 2021” inserendo di soppiatto il Disegno di Legge “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui all’articolo 116, comma 3, Cost.” . Il 13 ottobre ultimo, l’edizione di Napoli de “La Repubblica” ha pubblicato un articolo a firma di Isaia Sales intitolato “ Il metodo De Luca. Il Governatore campano e i 29 nuovi indagati” . I due episodi potrebbero sembrare distinti e non collegati ma una loro attenta lettura probabilmente li avvicina più di quanto si possa immaginare. Non è la prima volta che il Governo “infila” il DDL relativo alla cosiddetta autonomia differenziata delle regioni in un provvedimento legato al Bilancio dello Stato. Così è stato fatto anche in occasione dell’approvazione dello strumento di previsione contabile del 2020 . Questo artifizio non solo colloca in un luogo innaturale una materia così delicata, che dovrebbe essere per diritto costituzionale il Parlamento, ma nel contempo introduce un espediente a dir poco insidioso sotto l’aspetto squisitamente istituzionale in quanto facendo diventare il provvedimento materia contabile dello Stato di per sé lo blinda rispetto a eventuali ricorsi referendari. Come non è la prima volta che Isaia Sales realizza una riflessione circostanziata sul sistema di potere deluchiano in Campania interrogandosi sulla genesi e sulla evoluzione di tale “fenomeno”. Nel 1991, cioè quando inizia un importante stravolgimento del sistema politico e istituzionale,. Dietro la spinta di un sentimento fortemente avvertito da vasti settori del popolo italiano in quanto la sua anomalia aveva concorso a creare un sistema di potere effettivamente dannoso per lo sviluppo sociale e democratico della nazione, un referendum abolisce le agognate preferenze multiple introducendo quella unica . Nel 1993, sulla scia del cambiamenti succedutisi nel biennio precedente, avviene un’altra importante riforma, quella dell’elezione diretta dei Sindaci e del Presidente della Provincia , la quale a differenza di quello che accadrà sul piano nazionale, dove le diverse e discutibili leggi di riforma elettorali tutto sommato non intaccano il sistema istituzionale di natura parlamentare, qui si assiste con una serie di successive leggi a a una conseguente modifica degli assetti istituzionali e di funzionamento degli Enti locali. Nel 1999 si chiude il decennio delle riforme con l’introduzione, attraverso una legge costituzionale, dell’elezione diretta del Presidente della Regione che comporterà anche in questo caso una successiva riformulazione dei rapporti politico-istituzionali e rispetto al funzionamento amministrativo di questo Ente, anche se con qualche sostanziale differenza rispetto a quelli locali. L’autonomia regionale differenziata, quindi, la potremmo definire una sorta di proiezione di questo processo riformatore che ha comportato l’innesco di alcuni seri problemi di assestamento costituzionale oltre che di ordine economico e sociale anche per via di una conduzione alquanto incoerente e lasciva del confronto Stato-Regioni . Alla luce di questo profondo mutamento degli assetti dello Stato nelle sue articolazioni decentrate si può dire che in quest’ ambito si sia raggiunto un certo livello di compimento dell’auspicato “cambiamento”, almeno rispetto alle maggiori esigenze poste alla sua base: il rapporto diretto tra eletti ed elettori , stabilità di governo e arretramento dell’invadenza partitocratica. Ma nel contempo colpevolmente si tace sullo snaturamento registrato che paradossalmente ha generato la moltiplicazione di un centralismo regionalista e la quasi totale scomparsa di azioni di governance e di controllo politico generando di riflesso un rafforzamento del potere di condizionamento da parte delle strutture burocratiche di supporto alla funzione quasi monocratica dei Presidenti regionali. Nel corso di questo lungo e tormentato trentennio, inoltre, il sistema dei poteri locali ha subito una profonda ristrutturazione nei rapporti tra centro e periferia istituzionale prefigurando un modello ibrido sussidiario che ha fortemente penalizzato i piccoli comuni e in particolare quelli del Mezzogiorno. Le regioni sono state messe nelle condizioni di intercettare e gestire enormi flussi finanziari, in particolare quelli provenienti dall’Unione Europea, ivi compresi quelli strategici del PNRR, creando a loro volta una correlazione di subordinazione con gli enti locali in un contesto politico dove sono scomparse tutte le sedi di mediazione. E’ stata questa nuova filiera istituzionale , quindi, che ha generato la vera catena di comando che, però, ha avuto una sua ben precisa compartimentazione geo-politica che si è sostanziata con l’affermazione del ruolo preminente dei Presidenti delle Regioni, e dei Sindaci delle grandi città. In sostanza la stessa filiera trasversale che ha promosso l’irresponsabile “Legge Del Rio” . Di riflesso la Provincia ha perso la sua stessa identità costituzionale non solo per come è stata realizzata ma anche perché i Sindaci sono diventati i terminali di quel processo di cui dicevamo innanzi che non rispondono più né alla politica organizzata locale, in quanto inesistente, tantomeno a livelli superiori dei partiti, anche loro evanescenti sotto questo importante aspetto di riferimento. Non c’è un solo di questi ambiti territoriali che funzioni e che corrisponda alle sue preposte responsabilità : Provincia, Area Vasta, Progetto Pilota, Alto Calore, Piano di zona sociale, ATO Rifiuti : una drammatica sequela di scatole vuote o in forte crisi di funzionamento . E’ la democrazia territoriale, quindi, la vera vittima di questo nuova contesto e il “deluchismo” , con tutte le sue implicazioni, non è la sua genesi, ma la sua conseguenza distorsiva. Il problema di fondo che abbiamo, anche in prospettiva delle future consultazioni elettorali, è come facciamo vivere uno spirito per costruire in un contesto così fortemente compromesso che deve comunque mettere nel conto una sua alterità, iniziando dalla riscrittura dei rapporti tra Comuni e Regione laddove i primi tornino a essere un luogo vero di potere locale, che non è quello che si esercita nel proprio perimetro municipale ma nell’ordine della produzione legislativa della Campania. E’ necessario un processo ri-costituente regionale per ripensare profondamente gli ATO, i Piani di zona, le ASI, ecc. , come è indifferibile una riscrittura delle procedure ottriate che la Regione esercita, sia attraverso gli atti politici che degli apparati, che sono realizzate in totale disprezzo della partecipazione dei territori nelle diverse azioni di pianificazione, a partire dai “fratricidi” bandi a chiamata. Occorre , però, anche essere realisti per cui se è giusto credere nella paziente costruzione dei processi politici innovativi bisogna prendere atto che i partiti per come sono combinati oggi da soli non sono nelle condizioni di reggere un simile impegno per cui sarebbe opportuno non riscoprire la sedicente società civile, che di antipolitica ne ha fatto fin troppo in questo trentennio, ma forme partecipative vere, a partire dall’associazionismo e dai soggetti di rappresentanza dell’impresa, del lavoro e della formazione ( si vedano in tal senso i modelli di interessanti esperienze del GAL “Partenio” in ambito U.E) che possono essere immaginate senza necessariamente rinchiudersi nei salotti buoni o nelle illusioni di una evanescente democrazia della tastiera. Il territorio può essere la nuova cellula politica dove può rigenerarsi una certa idea di essa e delle istituzioni, a partire dal ruolo dei Sindaci, verso i quali non bisogna smettere di chiedere un coinvolgimento per un progetto che davanti a evidenti inadempienze del potere regionale non si trincerino dietro un’ interessata o timorosa indifferenza o all’ effimera trincea del municipalismo . Il documento promosso da alcuni amministratori progressisti in vista delle elezioni provinciali di dicembre è un contributo prezioso che va in questa direzione e che non va percepito solo come un documento di contingenza. Il leaderismo, compreso quello nostrano dei due golfi, da che mondo è mondo non è stato mai il successo di un uomo solo al comando quanto piuttosto la resa incondizionata che è stata impunemente offerta da chi doveva difendere una certa idea della democrazia. Sarebbe ora di prenderne coscienza.
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