Signor Presidente, onorevoli colleghi, mi chiamo Ilaria Cucchi e tutti voi sapete chi sono, conoscete la mia storia. Mio fratello Stefano è stato ucciso a suon di botte, morendo poi, dopo soli sei giorni, nelle mani dello Stato e passando nel frattempo attraverso la custodia indifferente e cinica di oltre 140 pubblici ufficiali. È una verità scomoda che mi ha fatto conoscere un lato oscuro dello Stato che mai avrei pensato potesse esistere. La giustizia, dopo oltre 160 udienze e ben quindici gradi di giudizio, ha accertato la verità, quella che era chiara, evidente e sotto gli occhi di tutti, ma è costata un caro prezzo alla sottoscritta e a tutta la sua famiglia, riconoscendo esplicitamente come fondamentale, appunto, il contributo mio e della mia famiglia.
Presidente Meloni, in questo percorso ho dovuto affrontare l’ostilità e le offese di alcuni esponenti della sua maggioranza, qualcuno che oggi ha addirittura responsabilità di Governo, ma non nutro nei suoi confronti alcun sentimento di pregiudizio. Nessuno.
La mia battaglia per mio fratello mi ha portata per tutti questi tredici anni di lotta a conoscere il mondo degli ultimi e dei derelitti. Ho frequentato e visitato tantissime realtà, comunità e associazioni che si occupano di coloro che, di fatto, sono privati dei diritti fondamentali dell’uomo. Ho fatto politica anch’io, ma sulla strada, non su queste poltrone ove oggi ho l’onore di trovarmi. Sono qui perché ho ricevuto la fiducia di tante persone e quella fiducia voglio ripagarla. Voglio portare qui tra voi la voce di chi ha creduto in me, oltre ad avermi sostenuta in tutti questi anni. Ho fatto politica sulla strada da sempre: da tredici anni non per mia volontà, ma dalla strada e dalle associazioni spontanee del volontariato si può davvero imparare tanto, Presidente, così come ho fatto io. Tutto ciò che serve e deve servire per garantire ai nostri figli un mondo migliore, una speranza per una società più giusta e più a misura d’uomo.
I nostri ragazzi sono quegli stessi studenti che ieri all’università «La Sapienza» sono stati affrontati come terroristi per il semplice fatto che essi – poveri – credevano di avere ancora il diritto di protestare, di far sentire la loro voce in modo del tutto pacifico oltretutto. Inaccettabili, invece, sono i modi violenti e disumani con i quali sono stati trattati; immagini brutali che non avremmo mai voluto vedere e davvero intollerabili, che hanno avuto come teatro un luogo per me sacro: l’università. (Applausi). Presidente, è davvero questo il modello di Paese che volete offrire ai nostri figli? Provo tanto dolore, ma devo dire anche tanta speranza.
Presidente, riconosco in lei la prima donna presidente del Consiglio, madre e – sì – anche italiana. Io le chiedo di andare a visitare, appena avrà modo, il mondo che ho avuto la fortuna di conoscere: quello del volontariato. La prego di farlo, Presidente, e sono convinta che cambierà idea su tante realtà e sulle grandi possibilità di riscatto che hanno gli ultimi, cittadini comuni, di organizzarsi spontaneamente e pacificamente tra loro per offrire ad essi stessi e ad altri una vita più sostenibile.
Ultimo, ma non ultimo ovviamente, è il tema del mondo delle carceri, dove lo Stato è fin troppo spesso “assente” ed uso un eufemismo. Sono luoghi di vita e di lavoro, piegati dalla sofferenza per le condizioni disumane in cui sono costretti a sopravvivere agenti e detenuti abbandonati dallo Stato, che preferisce di fatto metterli in guerra gli uni contro gli altri piuttosto che operare riforme serie per una giusta e doverosa riqualificazione dei diritti e delle vite di tutti coloro che sono costretti a starci insieme.
Sarebbe fin troppo semplice intervenire per lo Stato, che viceversa pare preferire il concetto dei carceri come discarica sociale, piuttosto che come luogo di rieducazione e offerta di nuove possibilità. Così si innescano vere e proprie situazioni esplosive, alle quali lo Stato risponde solo ed esclusivamente con l’unico mezzo che pare conoscere: la repressione. I settantuno suicidi dall’inizio dell’anno sono una tragedia, segno di un modello penitenziario in crisi. Parlando di carcere non si può non partire dall’articolo 27 della Costituzione, scritto da chi aveva subito la prigionia durante il fascismo. Quell’articolo non va cambiato, signor Presidente, ma va pienamente applicato. Il sistema penitenziario italiano non ha bisogno di più carceri, signor Presidente, ma di carcere migliori e di meno detenuti. Ben venga ogni riforma del codice penale che depenalizzi e riduca il carcere ad estrema ratio.Presidente Meloni, questo sistema non lo ha certo creato lei, ma nel suo programma non vedo una sola parola tesa in tal senso. Anche per questo non voterà la fiducia, ma vi invito a tenere in considerazione le mie parole.
Concludo, signor Presidente. Voglio entrare in quest’Aula con le parole di una donna a cui dobbiamo molto e che onora il Senato, le parole della senatrice Liliana Segre: «L’indifferenza è più colpevole della violenza stessa. È l’apatia morale di che si volta dall’altra parte: succede anche oggi verso il razzismo e altri orrori del mondo». Devo ringraziarla, senatrice Segre, perché in questo passo c’è la forza di un messaggio che può cambiare il mondo e che a me ha cambiato la vita: non voltarsi mai dall’altra parte; affrontare le ingiustizie anche a rischio di pagare un prezzo carissimo – come è accaduto a me – come quello della propria vita e serenità; scegliere il giusto e il bene comune, come ha fatto lei e come abbiamo il compito, colleghi, di fare oggi tutti noi. Buon lavoro.
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