DIFENDERE, INCREMENTARE E QUALIFICARE I SERVIZI EDUCATIVI PER L’INFANZIA

 

di Annamaria Palmieri e Giovanni Paonessa

 

La scuola dell’obbligo inizia a sei anni, con la scuola primaria, che in tanti ancora chiamiamo “scuole elementari”. Ma, naturalmente, bambine e bambini iniziano il proprio percorso di apprendimento sin dalla nascita. Nella relazione con la mamma, con il papà, con i fratellini (quando ci sono), con tutto il mondo che li circonda incuriosendoli.

Per alcune e alcuni di loro questo sistema di relazioni si arricchisce con la frequentazione, sin dalla più tenera età, di un nido dell’infanzia e, dopo i tre anni, di una scuola dell’infanzia che, dal 2012, pur senza l’essenziale riferimento all’obbligo, già dovrebbe rientrare a pieno titolo nel primo ciclo dell’Istruzione.

Quindi, quando la campanella suonerà per varcare l’aula della prima elementare, bambine e bambini già caratterizzati dall’esperienza familiare e dal contesto socio-culturale in cui hanno trascorsi i primi sei anni della propria vita, vi accederanno accompagnati da un ulteriore divario relativo alla frequentazione (o meno) del sistema educativo denominato “zeroseianni”, correndo il rischio concreto che, da quel momento in poi, il solco possa soltanto incrementarsi ulteriormente.

Nel 2022, facendo leva sul PNRR, il Governo aveva indicato un livello minimo di prestazione per i servizi per l’infanzia, fissando l’obiettivo di almeno trentatré posti presso i nidi ogni cento minori. Un obiettivo davvero minimo e del tutto insufficiente se si considera che l’Europa ha stabilito un tetto del 45%. Eppure, con un colpo degno della migliore interpretazione del “gioco delle tre carte”, il Governo Meloni ha riformulato questo indicatore; adesso sarà sufficiente che il 33% venga raggiunto a livello nazionale e che ogni singola Regione riesca ad attestarsi anche soltanto al 15%. La legge sulla cosiddetta “autonomia differenziata” non è ancora operativa eppure hanno già trovato il modo per farci capire come intendono manipolare i LE (livelli essenziali delle prestazioni) rendendoli inefficaci. Cosa comporterà, concretamente, quello che, all’apparenza, sembra un semplice ricalcolo di posti nido e percentuali? Aumenterà ulteriormente la distanza tra alcune Regioni del Centro-Nord, nelle quali l’obiettivo è di gran lunga superato già adesso, e praticamente l’intero Mezzogiorno del Paese, poiché gli Enti Territoriali non saranno sollecitati (e finanziati) per adeguarsi agli standard minimi fissati in precedenza, con buona pace delle “Linee pedagogiche per il sistema integrato zerosei” che, sebbene sostanzialmente sottovalutate se non ignorate, sono ancora vigenti e “scaricabili” dal sito istituzionale del Ministero.

Ma perché è tanto importante che bambine e bambini vadano “all’asilo”? Tutto sommato, è la giustificazione più ricorrente, se non è strettamente necessario, è preferibile che restino a casa, con la mamma che non lavora o si sdoppia per conciliare oneri familiari e qualche lavoro precario, oppure con i nonni, sfruttando i vantaggi della famiglia allargata che ancora rilevano in molte aree, soprattutto non urbane, del Sud. Una motivazione che trova fondamento perfino in alcuni documenti di contabilità generale dello Stato che ancora imputano i nidi per l’infanzia all’area dell’assistenza sociale oppure che impongono ai Comuni di farli rientrare nella tipologia “servizio a domanda individuale” in cui rientrano “tutte quelle attività gestite direttamente dall’ente, poste in essere non per obbligo istituzionale” e che “non siano state dichiarate gratuite per legge…”. Insomma, servizi che non sono obbligatori ma meramente facoltativi, con tanto di vincoli tariffari conseguenti e con buona pace della “programmazione integrata dell’offerta” auspicata dalle normative vigenti. Al contrario di quanto narri la vulgata prevalente, nei nidi dell’infanzia bambine e bambini imparano a riconoscere i propri pari, a mangiare da soli, a giocare in autonomia, a cadere, sbucciarsi le ginocchia, abbracciare e… Insomma, crescono e gettano rapidamente le basi per esercitare la propria autonomia. Nel corso dei primi tre anni di vita bambine e bambini impareranno progressivamente ad utilizzare i colori, a riconoscere gli animali, a tenersi per mano per spostarsi da una sala all’altra. Poi conosceranno i libri, che gli verranno letti sedendosi in circolo, oppure i fogli su cui scrivere e disegnare.

Sarebbe stato necessario rivendicare con forza che quelle percentuali minime fossero rapidamente raggiunte e superate, andando ad affrontare, tra l’altro, un’altra faccia della medaglia, mai chiarita adeguatamente. I finanziamenti stanziati per “creare” nuovi posti, da soli, non sono sufficienti per attivare effettivamente l’offerta. Infatti, una volta costruiti, i nidi vanno gestiti. Servono risorse finanziarie e deroghe amministrative per consentire ai comuni di assumere il personale necessario per farli funzionare adeguatamente. E’ del tutto improbabile, infatti, che possano “autofinanziarsi” con il solo regime tariffario, soprattutto se si ha l’obiettivo di proporre il servizio a nuclei familiari in condizioni economiche disagiate.

Qualche anno fa avevamo provato a riflettere su questo aspetto, chiedendoci come mai la domanda di posti nido in città fosse tanto diversificata, creando il paradosso di liste di attesa in alcuni quartieri del centro e nidi non del tutto saturati soprattutto nell’area Nord-Est della città. Sicuramente sulle scelte delle famiglie rilevavano anche i costi, sebbene il sistema tariffario vigente fosse davvero contenuto, tanto da provocare, in occasione dell’approvazione del Bilancio dell’Ente, i rilievi degli organi preposti. Ma, indagando più in profondità, si evidenziò una percezione distorta della funzione dei nidi dell’infanzia (e, per certi aspetti, anche delle scuole dell’infanzia) ai quali, al massimo, riservare una funzione di “parcheggio” dei figli, un servizio rivolto alla tipologia “genitori entrambi lavoratori”, oppure a coloro che si trovavano “costretti” a lasciarli anche soltanto per poche ore al giorno, in modo che il genitore (naturalmente la madre), avesse qualche ora libera da destinare ad attività lavorative precarie, all’accudimento di anziani, etc. In molti contesti socio-familiari la funzione educativa dello zerosei anni non è percepita, non è pubblicizzata, non è spinta con azioni e iniziative tese a renderne esplicita l’assoluta utilità per le bambine e i bambini. In diversi casi, il rapporto tra domanda e offerta è quasi ribaltato e questo dato potrebbe spiegare, o quanto meno offrire una chiave di lettura, per quale motivo, intorno alla palese carenza di un servizio che dovrebbe essere vissuto come essenziale, non si registri la mobilitazione dei potenziali destinatari per rivendicarne la fruibilità.

Il numero di iscritti alle scuole dell’infanzia comunali è storicamente tendenzialmente in calo, anche a seguito di una forte pressione delle scuole statali tendente ad “assorbire” l’utenza 3-6 anni negli Istituti Comprensivi, per costituire un percorso virtuoso che accompagni bambine e bambini per l’intero ciclo scolastico (infanzia, primaria, secondaria di primo grado). Eppure non è opportuno che i comuni rinuncino a rappresentare l’altra gamba dell’offerta educativa pubblica, dato che, in alcuni casi, il presidio di prossimità incoraggia i genitori a iscrivere i figli alle scuole dell’infanzia e ne agevola la frequenza. Ma è del tutto evidente che sia l’ambito dello 0-3 anni quello che deve maggiormente impegnare le amministrazioni comunali. Infatti, in questo segmento, i Comuni sono l’unico soggetto pubblico e hanno come concorrenti i nidi a gestione privata per i quali, fatte salve alcune importanti eccezioni, andrebbe aperta un’accurata riflessione. I nidi promossi dai privati, per poter operare, hanno bisogno di un’autorizzazione rilasciata dai Comuni, in applicazione del Regolamento regionale n. 4/2014 che fissa diversi parametri logistici ed organizzativi ma che fa rientrare i nidi dell’infanzia (anche quelli comunali) nel “Catalogo dei servizi residenziali, semi-residenziali, territoriali e domiciliari”. Un insormontabile limite “ideologico” poiché si continua a ritenere del tutto secondaria la funzione pedagogico-educativa dei nidi sebbene in tal senso vadano le indicazioni ministeriali vigenti. Inoltre, nel contesto territoriale dato, spesso i nidi gestiti dai privati rivelano gravi carenze organizzative e gestionali che mettono in discussione la qualità del servizio e mortificano i diritti di chi ci lavora.

Prima di lasciare i rispettivi incarichi nel Comune di Napoli, avevamo ipotizzato che fosse necessario arricchire il documento annuale di programmazione, presentato e discusso in sede di Commissione consiliare e con le Organizzazioni sindacali, elaborando un vero e proprio “Piano regolatore dell’offerta educativa comunale”, tenendo conto di tutti i fattori in gioco e utilizzando coerentemente le limitate risorse finanziarie disponibili (prevalentemente Fondi ministeriali SIEI), per rilanciare e riqualificare l’intero segmento zerosei. Il numero di nidi comunali è stato incrementato sensibilmente nel corso dell’intero mandato dell’Amministrazione de Magistris, utilizzando finanziamenti regionali, Fondi PAC e SIEI, il Patto per Napoli, mentre un’ulteriore accelerata era attesa dal puntuale utilizzo dei fondi attribuiti con il PNRR. Contrastando le forzature del Governo centrale, non bisognerà consentire alcuna rimodulazione al ribasso degli obiettivi prefissati. Contestualmente agli aspetti quantitativi (creare più posti nido è comunque ”cosa buona e giusta”) è opportuno avviare una riflessione sulla componente qualitativa dell’offerta.

Negli anni passati, caratterizzati da una carenza generalizzata di posti nido, le scelte logistiche sono state prevalentemente condizionate dall’effettiva disponibilità di spazi (aule inutilizzate in scuole dell’infanzia comunale o, più spesso, presso scuole statali, edifici da riqualificare) e, di conseguenza, l’offerta di posti-nido ha anticipato la domanda: apro un nuovo nido, lo pubblicizzo, raccolgo le iscrizioni. Adesso, è opportuno dotarsi di una metodologia basata sull’ascolto e sulla programmazione condivisa, per riuscire ad individuare le effettive necessità dei territori e rispondervi adeguatamente, andando a sollecitare e qualificare la domanda di posti nido anche in quei segmenti della popolazione che, semmai, non la inserirebbero tra le proprie priorità.

Non si tratta di partire dall’anno zero. In collaborazione con l’Università Federico II di Napoli (il caso vuole che la responsabile del Dipartimento universitario sia oggi Assessora con la delega all’Istruzione del Comune di Napoli) si è provveduto a promuovere e co-progettare interventi innovativi e sperimentali sui servizi educativi comunali, agendo, in particolare, sul personale e sulla didattica. Inoltre, la collaborazione con il DIARC dell’Università Federico II di Napoli ha fornito il supporto tecnico degli urbanisti “sociali” che, con gli Uffici comunali, hanno iniziato a individuare le soluzioni tecnico-organizzative per migliorare l’offerta strutturale degli spazi destinati ai servizi educativi, puntando su interventi di manutenzione leggera finalizzati alla qualificazione, alla rivalutazione ed alla rifunzionalizzazione degli spazi interni ed esterni dei plessi e per perseguire l’obiettivo di attivare processi virtuosi di riqualificazione strutturale, organizzativa e didattica degli ambienti destinati ai servizi educativi, avendo per oggetto lo “spazio come agente educativo”.

Per diversi anni, superate le diffidenze iniziali, maestre/educatrici comunali ed operatori specializzati del terzo settore hanno collaborato per realizzare ed implementare laboratori esperienziali ed “atelier”, coinvolgendo un gran numero di bambine e bambini e sperimentando sul campo l’idea pedagogica di fondo di realizzare il diritto e il bisogno del minore ad esprimersi con più linguaggi, non solo quello verbale, facendo viaggiare insieme razionalità e immaginazione.

Un investimento che darà i suoi frutti più avanti, quando le bambine e i bambini inizieranno il proprio percorso scolastico (è probabile che si possano ottenere effetti benefici anche sui fenomeni di disaffezione e dispersione scolastica) e si avvieranno su una strada, spesso impervia, per diventare cittadini consapevoli.

Infine, ma mai come in questo caso le problematiche viaggiano in parallelo e non in ordine di importanza, puntare decisamente sull’offerta educativa per i più piccoli significa anche agire su nuove opportunità lavorative. Sia dal versante di assunzioni dirette da parte dei Comuni di personale qualificato, sia attraverso il ricorso all’affidamento di quota parte dei servizi al privato sociale. Su quest’ultimo punto vanno evitati gli equivoci che spesso, anche strumentalmente, sono alimentati da un’interpretazione distorta dei termini. I processi di “privatizzazione”, da scongiurare, prevedono un completo e radicale “passaggio di mano” dei servizi, con gli Enti che, al massimo, si ritagliano funzioni di indirizzo e controllo.

Il ricorso alla preziosa funzione del Terzo Settore, al contrario, comporta esclusivamente l’affidamento temporaneo di servizi o parte di essi a soggetti senza scopo di lucro che sono selezionati con procedure ad evidenza pubblica e sottoposti al rispetto dei capitolati d’appalto, delle indicazioni e dei controlli del soggetto affidatario. Se governati correttamente, tali processi possono consentire sperimentazioni in attesa di un consolidamento strutturale: di modelli organizzativi, si pensi agli agri-nido; di modelli gestionali con orari flessibili e concordati con la platea dei genitori; di profili professionali con i quali integrare gli organici dei nidi, a partire dal personale ausiliario qualificato.

In conclusione, riteniamo che ci siano tutte le condizioni per coinvolgere i diversi attori richiamati, aggregarli intorno a chiari obiettivi condivisi e lanciare una vera e propria vertenza, nazionale e territoriale, per difendere, incrementare e qualificare i servizi per la prima infanzia. Noi, siamo a disposizione per dare un contributo.

 

 

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