di Raffaele Scala
Eravamo felici ma non lo sapevamo quando andavamo in villa comunale per la nostra passeggiata e percorrevamo, un poco annoiati, i suoi lunghi viali alberati, o quando, in maniera svogliata, ammiravamo il nostro golfo con il Vesuvio sullo sfondo e inalavamo il profumo della salsedine del nostro lungomare, oppure quando, e ancora più distrattamente, davamo un occhiata ai cani che si rincorrevano felici sulla sabbia nera ricoperta, in parte, di un manto d’erba, criminale eredità di errori commessi, voglio credere in buona fede, da nostri lontani, amati amministratori comunali.
Ridevo dei tuoi eccessivi selfie, delle tue femminili arrabbiature e allora mentre t’immortalavi per distrarmi mi limitavo a guardare, non so, l’eterno cantiere chiuso della Casa del Fascio, pensando che prima o poi i lavori si sarebbero completati ed avremo, un giorno, la nostra biblioteca, magari un Archivio Storico Comunale degno della sua importanza, finalmente liberato dall’abbandono nel quale versa da troppo tempo, forse da sempre, oppure uno sguardo fugace verso le finestre chiuse dell’Hotel Stabia, un pezzo di storia della nostra Castellammare, come l’antico edificio dell’ex Banca d’Italia, ora banca Stabiese. E all’improvviso, come sempre, tu, consapevole della mia noia, mi strattonavi svegliandomi dalle mie fantasie di stabiese innamorato della sua bellissima Città, dicendomi: Andiamo!
Cambiando itinerario ce ne andavamo per la nostra via Toledo, il bel Corso Vittorio Emanuele, con i suoi negozi e le sue vetrine scintillanti, le sue strade sempre piene di gente indaffarata. Si andava fino al Bar Fontana, dove qualche volta ci fermavamo a bere un buon caffè, senza che il buon Gaetano sapesse chi sono – potenza di Libero Ricercatore che crea conoscenze senza volto – poi si girava per Piazza Matteotti, uno sguardo sfuggente alla nostra bella stazione ferroviaria, baluardo a ricordo del nodo ferroviario più antico d’Italia, poi verso via Roma, risalendo fino a via Santa Maria dell’Orto. Di nuovo in villa comunale, stavolta per sostare, fermata obbligatoria, al chiosco del giornalaio, il nostro amato Stanino, per comprare il giornale, scambiare qualche chiacchiera fugace e via, passo dopo passo verso l’auto, per il ritorno a casa.
Eravamo felici e non lo sapevamo quando la mattina ci svegliavamo, facevamo colazione, indossavamo la nostra tuta e via per percorrere i nostri dieci chilometri, dal Miramare a Pozzano e ritorno. Era bello camminare con passo veloce sul lungomare, lasciarci dietro lo schiamazzo dei ragazzi che avevano marinato la scuola, percorrere il porto dove è più forte e pungente l’odore del mare con le sue barche e reti di pescatori lasciate sul molo. Arrivare all’Acqua della Madonna, superare i cantieri navali, i nostri bicentenari cantieri oggi desolatamente chiusi, lo sconforto di andare oltre le malinconiche Antiche Terme, verso via Acton, dove solitamente tu mi lasciavi per aumentare il passo, correndo veloce verso l’aspra, seppur breve salita di Pozzano, mentre io mi accontentavo di proseguire dritto, per evitarla, passando davanti i ruderi delle abbandonate Terme Vanacore, ormai covo di erbacce, topi e serpenti. Ci rincontravamo là, oltre il bivio della Panoramica, dove ci fermavamo per dare un’occhiata alle nostre spiagge deserte, ad apprezzare l’orizzonte, soffermandoci ad ammirare qualche lontana barca a vela. Non molto tempo prima
avevamo ammirato quella magnifica nave di legno a vela russa ancorata nel nostro porto, perfetta riproduzione della prima fregata militare costruita da Pietro il Grande nel lontano 1703, come ci ha ricordato il buon Corrado Di Martino, E prima ancora avevamo vista partire la nave militare, Trieste, l’ultimo gioiello varato dal nostro glorioso cantiere, dopo che una folla estasiata ne aveva ammirato il varo.
Era bello, era troppo bello, ma a tutto questo non davamo la sua giusta importanza. Pensavamo che era nostro diritto possederlo, anzi, neanche ci sfiorava la mente che potevamo rimpiangerlo, tanto era implicito che questa luogo, questo mare, questo cielo, questa terra fosse nostra e che nessuno ce l’avrebbe mai tolta alla nostra vista. Questa era la nostra Città, il luogo dove eravamo nati, dove tante generazioni prima di noi ci avevano preceduto lasciandocelo in eredità.
Guardavamo con superficialità le cose intorno a noi, non apprezzavamo, ed invece ora eccoci qui, chiusi nelle nostre case a meditare sugli errori commessi, sulle cose non fatte, a rimpiangere le nostre noiose passeggiate. Dove sei mia bella villa comunale? Mio struggente lungomare? Non vediamo l’ora di riprendere ad annoiarci, a criticare la vetrina di quel negozio, la gente che si affollava e gridava, l’assordante suono dei clacson delle auto, il rumore del traffico, indisciplinato come sempre. E aspettiamo trepidanti di poter guardare con occhio meno torvo la moltitudine di
ragazzini che maleducatamente s’impossessano e fanno propri gli attrezzi ginnici, di quella bella palestra all’aperto posta nei giardini pubblici. Mi accorgo di scrivere come se questi ricordi appartenessero ad un epoca lontana, ma sono soltanto di ieri, fotogrammi felici di una settimana fa, ma che ora sembrano appartenere ad un altro secolo, foto sbiadite di un album di famiglia, tanto sono agognati. Ricordi struggenti aggravati da queste bellissime giornate di marzo, di anticipata primavera.
Ora eccoci qui a guardare malinconicamente la televisione, ad ascoltare, preoccupati, i notiziari che parlano di contagi, di morti, della borsa che crolla, dell’eroismo di medici ed infermieri che lottano contro il tempo e contro questo maledetto virus, di poliziotti e carabinieri costretti a ricordarci i nostri più elementari doveri di cittadini indisciplinati, nonostante tutto. Viviamo da reclusi, cercando una boccata d’aria affacciandoci al balcone, uscendo nel cortile, evitando i vicini, salutandoli da lontano, perché ci vogliamo bene, ma non si può mai sapere! Quando la nausea sartriana da eccessivi notiziari ci vince, ci tuffiamo nelle pagine di buoni, vecchi libri, che a rileggerli non fa mai male, così dalla mia fornita biblioteca tiro fuori i quattro volumi di Daniel Pennac e ricomincio dal bel Paradiso degli orchi per riassaporare le avventure del povero Malaussène, capro espiatorio per antonomasia. Ma quando scende la sera, intorno alle diciotto, non possiamo non ricordarci di essere tutti italiani, alla ricerca di una difficile eppure possibile, oggi più che mai, coesione sociale e allora, dimenticando il nostro atavico anarchismo, il nostro cinico individualismo, ci affacciamo cercando per qualche minuto di fingere di essere un poco più felici, cantando e suonando, ognuno come può, come sa. Da lontano si sente, ora, Abbracciame, una canzone di Andrea Sannino che non avevo mai apprezzato per quel messaggio che ora scopriamo tutti insieme, ma non manca chi canta l’inno nazionale, quel Fratelli d’Italia, tanto disprezzato in un non lontano passato, Da qualche balcone si ode O surdato nnamurat, da quell’altro la splendida, intramontabile, Il cielo è sempre più blu, dal mio, perché non so cantare, non ho voce, mi limito a far alzare nel cielo la voce incantata di Tosca e la sua struggente evergreen, Bella ciao. Un modo come un altro per far sentire che siamo vivi, pronti a resistere. Qualcuno ha già scritto che siamo i partigiani di una Nuova Resistenza, un eccesso linguistico, senza dubbio, ma a volte abbiamo bisogno anche di queste frasi roboanti per sentirci protagonisti, partecipi di questa battaglia, individuale e collettiva nello stesso tempo. Oggi più che mai ci sentiamo patrioti, non a caso quest’anno abbiamo festeggiato con particolare enfasi, il 17 marzo scorso, i 159 anni di una difficile, complicata, imperfetta e forse incompiuta Unità d’Italia, se ancora vi è chi sogna impossibili, balorde secessioni.
Siamo tutti Italiani, tali stiamo imparando a essere, a sentirci in questi momenti bui. Lo stesso orgoglio da finale di Coppa del Mondo, quando la vincemmo contro i nostri cari, odiati cugini di Francia. In fondo Berlino 2006 non è lontano. Stiamo perfino insegnando agli altri Paesi, dopo essere stati quasi derisi e disprezzati, a come comportarsi contro il maledetto covid 19. Chi l’avrebbe mai detto!
Tutto questo ci aiuta a sentirci meno soli, a darci coraggio, a non pensare alla morte, ma abbiamo la certezza che tutto questo finirà, che ce la faremo anche se niente sarà più come prima.
Eravamo felici, ma non lo sapevamo! Domani, forse, lo sapremo, non ce lo dimenticheremo. Forse.
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