di Sirio Conte
Con le dimissioni del CEO Tavares e la crisi di Stellantis, in quanto crisi occupazionale, si può considerare chiusa una fase della storia industriale del nostro paese. E si possono considerare anche in crisi le ultime illusioni sulle magnifiche e progressive sorti del “mercato” come fattore fondamentale dello sviluppo economico e sociale del paese. Eppure solo 10 anni fa, quando nell’ottobre del 2014 nasce FCA dalla fusione di Fiat e Chrysler, si narrava che il nuovo gigante dell’automotive avrebbe assicurato una crescita sicura del comparto con ottimi risultati in termini occupazionali. Passava, in quei giorni, quasi inosservata la scelta di avere sede legale ad Amsterdam con la conseguente riduzione degli introiti fiscali per l’Italia, che invece avrebbe continuato ad erogare cospicui incentivi per gli investimenti del Gruppo. Una linea, quella dell’assistenza al capitale ed in particolare alla Fiat, che durava da anni. Infatti da una ricerca della CGIA di Mestre risulta che dal 1977 al 2012 circa 8 miliardi di fondi pubblici sono finiti direttamente all’azienda degli Agnelli senza contare gli ammortizzatori sociali utilizzati nel periodo e gli stessi incentivi all’acquisto di auto per i consumatori. Una massa di soldi pubblici indirizzata verso gli usi privati senza un effettiva misura di controllo e di vincolo sulle finalità di tali misure. La giustificazione è sempre stata un generico impegno al mantenimento dei livelli occupazionali e immancabilmente disattesa anno dopo anno. Al ricatto occupazionale si è sempre accompagnato un incremento dei profitti, tanto da determinare una sorta di indifferenza della proprietà verso gli investimenti produttivi che in gran parte venivano generati da fondi pubblici. Pensiamo, ad esempio, alla costruzione tra il 1990/95 degli impianti di Melfi e Pratola Serra costati allo stato oltre un miliardo di euro attuali. Nel 2020, in piena pandemia, FCA riceve 6,3 miliardi di prestiti coperti da garanzie di stato come stabilito dal governo Conte 2. Denaro che contribuirà alla nuova fusione, questa volta con il gruppo francese PSA, che darà alla luce l’attuale Stellantis con il CEO, appunto Carlos Tavares, più pagato d’Europa con i suoi 23 milioni all’anno. La composizione azionaria vede al primo posto Exor (finanziaria della famiglia Agnelli) con il 14,9%, poi lo Stato francese con poco più del 6,4% e la famiglia Peugeot con il 7,1. I livelli occupazionali in Italia di questo gruppo, nonostante le elargizioni di danaro pubblico, sono passati dai 52.740 del gennaio 2021 ai 42.700 di fine 2023 con una perdita di circa 10.000 posti di lavoro, questo senza affontare il tema dell’indotto che l’attuale vertenza Transnova ha posto all’attenzione generale. Ma il vero scandalo sta nel fatto che nel corso dei suoi 4 anni di vita Stellantis ha distribuito agli azionisti circa 23 miliardi: oltre 17 miliardi di dividendi (inclusa la spartizione delle azioni di Faurecia) e 5,5 miliardi di riacquisti di azioni proprie. La linea di questi anni appare sempre più appiattita sull’esigenza di spremere il più possibile ogni fonte di finanziamento, sia sul fronte del mercato con una dissennata politica dei prezzi, che su quello del contenimento dei costi (a partire dagli stipendi) che, infine, su quello dei contributi di stato. Una linea come si vede senza prospettive se non quella del ridimensionamento e della vendita, seguendo il destino di tante imprese che hanno fatto parte della storia industriale di questo paese. Una storia ormai giunta alla fine a quanto pare. Infatti il tema vero che si pone di fronte a noi riguarda il tramonto della grande industria italiana che, a partire dalla chimica, dalla siderurgia, dalla meccanica, dall’agroalimentare, dal tessile, aveva portato il nostro paese ai primi posti nel mondo. Questo ruolo però era fortemente connesso alla presenza attiva dello stato nella economia, una presenza che la sbornia ideologica neoliberista, a partire dagli anni 90 del secolo scorso, ha messo prima in discussione e poi cancellato. Con i risultati che oggi sono sotto i nostri occhi. Ecco che proprio a partire dalla vicenda Stellantis occorre riaprire una riflessione senza più tabù che guardi seriamente in faccia la dura realtà dei fatti e che riproponga il tema di una seria politica industriale, in Italia come in Europa, socialmente ed ecologicamente sostenibile. La rivolta sociale evocata dal segretario generale della CGIL non può esimersi dall’affrontare queste questioni.
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