di Raffaele Cimmino
Giuseppe Conte ha qualche ragione dalla sua per presentare l’accordo raggiunto al Consiglio europeo come un successo dell’alleanza dei paesi che proponevano gli Eurobond o comunque uno strumento di debito comune. Non avremo gli Eurobond, né i Coronabond. Se le cose andassero come l’accordo prevede, avremo quanto di più simile si possa loro avvicinare dati i rapporti di forza che reggono l’architettura europea. Il Recovery fund, al momento questo è. Il contenuto è però ancora tutto da scrivere e ci sono spiragli che si possono allargare o restringere. Questo perché al Consiglio europeo si è solo decisa la cornice di quello che sarà uno strumento finanziario che farà capo alla Commissione europea. La quale lo caricherà sul prossimo bilancio della UE, che dovrebbe almeno raddoppiare, da circa l’1% al 2% del pil europeo, e definirà la struttura e la portata dell’intervento. La proposta dovrebbe poi passare all’Eurogruppo e quindi essere approvata dal Consiglio europeo. Dunque, un passo puramente interlocutorio che apre uno spiraglio ma facendo ben attenzione a tenere ben stretto il varco a una qualche mutualizzazione delle risorse che verranno impegnate nella crisi economica e sociale in cui verosimilmente il Covid-19 sta scaraventando tutti i paesi europei; naturalmente con effetti diversi per ognuno di loro.
Gli aspetti positivi. Per la prima volta di parla di un impegno comune che potrebbe coinvolgere tutta l’eurozona riguardo a risorse da stanziare a fondo perduto. Si uscirebbe quindi, ma solo parzialmente, dalla dinamica prestito-restituzione che è sempre stato, e rimane, l’unico meccanismo di reperimento delle risorse nell’eurozona, oltre l’intervento della BCE sul mercato secondario. Ancora, per la prima volta si è palesato uno scontro politico e una divergenza di interessi nazionali tra due gruppi di paesi, quelli nordici stretti intorno alla Germania e quelli latini. La Francia ha rotto quindi lo storico asse franco-tedesco e Macron si è speso per la mutualizzazione del debito da Covid, conscio evidentemente della gravità delle situazione anche per il suo paese.
Insieme alle (poche) luci ci sono le ombre. Mandando avanti i piccoli paesi nordici e ritagliandosi il ruolo di arbitro, la Germania ha concesso assai poco. Non potendo sbattere la porta in faccia alla seconda e terza economia europea ha lanciato un’esca. Uno strumento come il fondo per la ripresa che in parte consisterebbe di risorse a fondo perduto e in parte di prestiti. Quale sia la portata delle une quanto degli altri è il problema. Naturalmente i nordici spingono perché tutto o la massima parte sia a debito, il contrario fa l’altro schieramento. A determinarne la reale natura del Recovery plan sarà verosimilmente l’esito del conflitto, ancora una volta farraginoso e faticoso, che si produrrà in sede di Commissione europea.
In secondo luogo, i tempi di intervento previsti sono troppo lunghi per la velocità e la profondità della crisi economica già ampiamente in corso. Ancorare il Fondo al bilancio europeo significa renderlo operativo soltanto a metà del 2021. Ipotesi semplicemente irricevibile. Per questo si pensa a una soluzione ponte che permetta di fare fronte subito alle esigenze di inedita grandezza che appaiono già alle viste. Inoltre, non c’è ancora nessuna certezza sull’entità delle risorse. La previsione di 700 miliardi appare molto al di sotto delle necessità. Le previsioni, secondo l’ufficio parlamentare di bilancio quest’anno ci andrà a un -8%, ma altre stime parlano di un -15%, fanno pensare che l’Italia da sola avrà bisogno di alcune centinaia di miliardi di euro per tenere in piedi il proprio sistema economico e la relativa tenuta sociale. E’ probabile che al di sotto di 1500 miliardi il Fondo non spiegherebbe effetti significativi
Dunque, insieme a uno spiraglio rimane la lunga e bizantina procedura che lascia ancora indeterminata l’entità e rallenta i tempi di intervento. Inutile dire che quanto più lenta sarà la risposta più grandi saranno i danni e più difficile rialzarsi per i paesi più deboli della eurozona. Restano, è vero, le altre tre gambe dell’intervento deciso dall’unione. Ai 200 miliardi della BEI si sommano i 100 del Sure e il Mes che, se l’Italia ne chiedesse intervento, ci assicurerebbe, 36 miliardi vincolati alle spese sanitarie dirette o indirette dovute all’emergenza Covid.
In Italia il dibattito sul Mes ha assunto subito una curvatura abbastanza provinciale e politicista. Nel senso che l’ accettare o meno il Mes è servito a distribuire patenti di europeismo o antieuropeismo, e ad assestare qualche spallata al governo. Conte ha dovuto mediare tra il no assoluto al Mes dei Cinque stelle e le spinte sempre più forti che venivano dal Pd a un uso del Mes. Da accettare senza remore perché – è stato il mantra – privo di condizionalità. In realtà, sgomberando il campo dagli opportunismi, le condizionalità ci sono solo che sono implicite. Stanno nella nota dell’Eurogruppo che ricorda senza mezzi termini che una volta ritornato in vigore il patto di stabilità e coesione “gli Stati membri dell’area dell’euro rimarranno impegnati a rafforzare gli equilibri economici e finanziari, in linea con i quadri di coordinamento e sorveglianza economica e fiscale della Ue”. Tradotto significa che i soldi arrivati con il Mes vanno restituiti e che si sommano al debito pubblico preesistente cha andrà ridotto secondo le regole del Fiscal compact. Non solo. Il problema è che l’accesso stesso al Mes sia pure senza condizionalità all’entrata farebbe scattare lo stigma dei mercati, ovvero farebbe schizzare in alto i costi di rifinanziamento dello Stato. Questo perché titoli italiani varrebbero meno. Avremmo bisogno quindi di sempre più risorse che non potremmo a quel punto che chiedere prestiti via Mes con tutto quello che ne consegue. Insomma, per i 36 miliardi del Mes che possono essere utili ma che non faranno una grandissima differenza si rischia una china alla greca. Considerati i numeri monstre delle manovre che il governo sta licenziando, per la prossima di parla di una cifra dai 50 ai 75 miliardi, è facile dedurre che le reali esigenze del paese nei prossimi mesi saranno ben più consistenti. Ecco perché la richiesta di intervento del Mes andrebbe preferibilmente evitata e fa bene Conte a ribadirlo. L’accesso infatti non è automatico e prevede una richiesta, e già qui c’è il sentore della trappola.
Nel complesso, occorrono interventi più rapidi e molto più massicci. Qualcosa di molto simile all’intervento della BCE che ha messo nel circuito monetario 750 miliardi. Qui sta il punto vero della faccenda. L’entità della crisi economica e sociale soprattutto nei paesi mediterranei si preannuncia di entità tale da con sé anche da trascinare anche quelle più forti travolgendo l’intero assetto dell’economia europea. Basti ricordare che la metà dell’export tedesco è intraeuropeo. Il combinato disposto di crisi dell’offerta e crisi della domanda sarà tanto più esplosivo quanto più si approfondirà.
Sembra sempre più evidente che l’edificio europeo si potrà salvare solo se cambia profondamente. L’unico cambiamento salvavita è un nuovo e non previsto, ma già esercitato surrettiziamente, ruolo di prestatore di ultima istanza della BCE rispetto all’economia reale e non al circuito finanziario. Potrebbe essere finalmente l’occasione anche per quella riconversione ecologica che per ora è rimasta solo sulla carta degli annunci. L’economia avrà bisogno di un’iniezione diretta di liquidità non solo per rianimarsi ma per riorganizzarsi sulle nuove catene del valore che usciranno dalla grande crisi. Solo la BCE potrà sostenere un intervento di tale portata, e potrebbe farlo con la monetizzazione diretta dei deficit nazionali, come ha fatto la Bank of England. Si bypasserebbe così la spirale del debito. LA BCE farebbe da vera banca centrale dell’Eurozona e creerebbe direttamente moneta, un cambiamento che sarebbe a un tempo strutturale ed epocale. Al netto di qualche economista non mainstream, nessuno attore politico prevede né ha chiesto esplicitamente questo strumento. Oggi si risponde che non è questo quello che prevede lo statuto della Bce. Un po’ poco di fronte a una catastrofe in arrivo. Ma a volte è la grandezza degli eventi e l’istinto di sopravvivenza a produrre cambiamenti non più rinviabili.
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