di Angelina Spinelli
Di autonomia differenziata si parla da anni nel quadro del confronto su regionalismo e federalismo, con una alternanza di fasi di vivo interesse e di fasi in cui l’argomento scompare dai radar. Adesso se ne discute in modo particolare perché l’avvento del nuovo governo e l’iniziativa del ministro per le riforme, il leghista Calderoli, hanno dato nuovo impulso al tentativo di addivenire ad un nuovo assetto delle competenze regionali. Il punto è che siamo in presenza di una procedura anomala ed irrituale: se ne discute, si susseguono incontri istituzionali, ma non c’è un testo formalizzato ed approvato dal Consiglio dei Ministri e soprattutto non c’è alcun mandato parlamentare. C’è solo una proposta del Ministro intitolata “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata” in cui si dice che si vorrebbe procedere attraverso una negoziazione con le singole regioni e successivamente con un testo sul quale ci possa essere la presa d’atto della Conferenza Stato-Regioni. Un evidente raggiro.
Quello che si delinea, ma le cose possono cambiare, non è, dunque, un provvedimento di ordine generale valido per tutto il territorio nazionale, ma un processo artificioso, studiato su misura delle regioni del Nord e magari del centro (Emilia Romagna, Toscana), quelle più ricche e strutturate. Uno schema costruito per consentire alle Regioni di appropriarsi di competenze di grande importanza quali scuola e organizzazione scolastica, programmazione dei programmi scolastici, beni culturali, turismo e delle relative risorse, lasciando allo Stato il ruolo di grande contenitore vuoto, con in più addosso il fardello delle ataviche difficoltà in cui si dibatte il paese e delle nuove sfide (mezzogiorno, ritardi e distorsioni della pubblica amministrazione, emergenze indotte dal cambiamento climatico, governo dei flussi migratori ed accoglienza, riqualificazione dell’apparato produttivo e transizione ecologica etc). A questo si aggiunge il grande peso del debito pubblico perché le regioni, quelle più ricche e sviluppate, richiedono si maggiori poteri ma non vogliono sentir parlare di farsi carico del risanamento del debito. A questo deve pensarci lo stato!
Quel che si va prospettando, perciò, è di fatto una rottura dell’unità nazionale, una separazione di alcuni territori rispetto ad altri, una secessione delle aree più produttive e sviluppate: la secessione dei ricchi, appunto! La secessione dei ricchi realizzata senza un disegno unitario, né dal punto di vista territoriale nè per ciò che concerne le attribuzioni che, derivando da una trattativa regione per regione, possono essere differenziate. Una secessione dei ricchi realizzata attraverso un federalismo a macchia di leopardo o , per meglio dire, “a la carte”. Calderoli si spende per dire che non ci sono disegni politici nascosti, che una maggiore autonomia può essere utile a tutti, alle regioni ed allo stato, al Nord ed al Sud; alla fine tutti ci guadagnerebbero.
Ma è davvero così? Per capire meglio può risultare utile ricostruire velocemente le tappe e gli avvenimenti che ci hanno condotti al punto in cui oggi siamo.
L’ultima prova di grande coesione e solidarietà nazionale che questo nostro paese ha conosciuto è stata indubbiamente il terremoto dell’80 in Campania e Basilicata. Si trattò di un grande sforzo di mobilitazione di coscienze ed energie umane – i volontari che accorsero da tutta Italia ed in particolare dal Nord – e di un investimento di risorse economiche e finanziarie senza precedenti. Attorno alla grande quantità di miliardi stanziati si produsse malversazione e corruzione e ben presto la solidarietà si tramutò in disincanto e poi, via via, in distacco critico e aperta condanna, tanto che per accertarne le responsabilità fu necessaria una commissione parlamentare d’inchiesta. Nel settentrione la disillusione e la reazione portarono alla nascita della Lega e alla diffusione di un sentimento di rivalsa territoriale che si esprimeva attraverso parole d’ordine di evidente rottura della unità nazionale del tipo di “Roma ladrona”, di “padroni a casa nostra”, di “secessione lumbard” e “Padania libera”. Le parole d’ordine erano sopra le righe e abbastanza folkloristiche, ma dietro di esse cresceva un movimento capace di tenere assieme cittadini, società civile, istituzioni locali e interessi economici e produttivi; un movimento che rivendicava maggiore autonomia e , nel nome della necessità di fare fronte ad una presunta “questione settentrionale”, maggiori risorse. Nei programmi e nel confronto politico la “questione settentrionale” si sostituiva alla “questione meridionale” che veniva di fatto accantonata.
La discussione su autonomie e regionalismo, che era stata sempre viva sin dalla nascita della repubblica, non poteva non risentirne. La pressione esercitata dal leghismo nordista mutò i termini della discussione. Si determinò un’accelerazione e il tema divenne quello del federalismo: stato federale in luogo della Repubblica delle autonomie. Nel 1997 (governo di centro sinistra) fu varata la legge delega (legge Bassanini) per il conferimento di poteri e compiti alle regioni e agli enti locali con la quale si fissava l’obiettivo di procedere all’attuazione del federalismo in un quadro di costituzione invariata. Si tentava cioè di mettere in campo una resistenza alle richieste di modifica della carta costituzionale ma in effetti venivano aperti grandi spazi alla alterazione dell’equilibrio dei poteri tra stato, regioni ed enti locali. Nel giro di qualche anno furono vanificati i propositi di resistere e prevalse il calcolo sbagliato di evitare scontri e di rabbonire le pretese del Nord e della Lega. Il risultato di questo cedimento, politico e culturale prima di tutto, fu il varo della legge costituzionale 3 del 18 ottobre 2001 (governo Amato, centrosinistra) che operava una consistente riforma del Titolo V della Costituzione. Con questa legge furono dilatate a dismisure le competenze regionali e degli enti locali minori e in particolare fu assegnata alle Regioni la facoltà di legiferare con competenza esclusiva su materie importanti quali pianificazione territoriale, trasporti, sanità etc.
La riforma ha cambiato l’assetto dei poteri ma non ha conseguito l’obiettivo di migliorare i servizi, nè quelli che prima erano svolti dallo stato nè quelli erogati dalle regioni e dagli enti locali. Maggiori poteri non ha significato servizi migliori e soprattutto non ha significato contenimento della spesa. Abbiamo tutti vissuto la grave esplosione della pandemia e in quella occasione abbiamo potuto constatare come le prestazioni fornite dalle regioni non solo non fossero omogenee sul territorio nazionale ma che fossero inadeguate a far fronte all’emergenza. Si è parlato in quella occasione della necessità di rivedere l’attribuzione della sanità alle regioni per riportarla nelle competenze dello stato centrale, appunto perché la sanità dei 20 “governatorati” non è risultata per nulla preferibile all’Italia unita. Le regioni hanno mostrato la loro inadeguatezza ed insufficienza pur avendo assorbito l’80% delle risorse a loro destinate. La qualità dei servizi erogati è peggiorata ed è cresciuta la spesa pubblica rispetto al passato.
Incassata la riforma del Titolo V, con la nomina di Umberto Bossi a ministro per le riforme e la devolution, ripartirono i propositi federalisti. Il progetto era quello di cambiare l’assetto istituzionale della Repubblica, trasformando il Senato in camera delle regioni, modificando l’ordinamento del CSM e della Corte Costituzionale, aumentando i poteri del Presidente del Consiglio dei Ministri, aumentando le materie di esclusiva competenza regionale. Tra queste, giova ricordare, figuravano fin da allora la scuola, l’organizzazione scolastica, la definizione dei programmi e c’era la possibilità di varare corpi di polizia regionale. La devolution di Bossi, così formulata, si schiantò, però, sul referendum del 25 e 26 giugno del 2006 quando la maggioranza dei votanti ha respinto la riforma.
Strano destino quello dei pronunciamenti referendari: l’acqua deve essere pubblica e sull’acqua non si devono fare profitti, ma la legislazione successiva va in direzione assolutamente contraria al pronunciamento referendario; la scuola, l’ordinamento e i programmi, non possono essere di competenza regionale ( così come stabilito dal risultato referendario) e adesso Calderoli, alla chetichella, ha rimesso la questione nell’impianto delle nuove e maggiori competenze da trasferire alle regioni.
Il referendum del 2006 assegnò una bella botta alle mire nordiste e della lega. Per un po’ di tempo non se ne parlò più. Ma poi le talpe del federalismo si sono rimesse a scavare e sono tornate alla carica.
L’appiglio utilizzato è l’articolo 116 della Costituzione. Esso prevede la possibilità di attribuire forme e condizioni particolari di autonomia alle Regioni a statuto ordinario. Si chiama “regionalismo differenziato” o “regionalismo asimmetrico”, proprio perché consente ad alcune Regioni di dotarsi di poteri diversi dalle altre . L’ambito delle materie nelle quali possono essere riconosciute tali forme ulteriori di autonomia concernono: tutte le materie che l’art. 117 attribuisce alla competenza legislativa concorrente e un ulteriore limitato numero di materie riservate dallo stesso art. 117 alla competenza legislativa esclusiva dello Stato e cioè organizzazione della giustizia di pace, norme generali sull’istruzione, tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. La procedura prevista è quella di una legge rinforzata, che, sulla base di una intesa della conferenza Stato – Regioni, è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti.
La procedura che invece sta seguendo Calderoli si fonda sui raggiri e sulle furbizie. Profilo basso e dialogante, istituzionale, senza connotazioni di tipo politico proprio per trovare disponibilità e consensi. E queste non sono mancate. La Toscana e L’Emilia, attraverso i loro governatori, si sono dette favorevoli e finanche la Puglia e la Campania, a giorni alterni, hanno manifestato interesse. Adesso Bonaccini, candidato a segretario del Pd, sta cercando di frenare e cosi anche De Luca ed Emiliano. Ma proprio l’altro ieri De Luca è tornato a dirsi disponibile perché “l’autonomia può aiutare l’Italia a trovare livelli di efficienza e livelli di legittimità nelle istituzioni”.
Mi avvio a concludere. Come Sinistra Italiana pensiamo che queste aperture di credito ad un disegno che punta a manomettere la costituzione attraverso una procedura di contrattazione tra governo e regioni siano sbagliate. Serve, invece, la costruzione di un fronte unitario di opposizione convinta e consapevole non soltanto delle forze politiche che sono all’opposizione del governo Meloni, ma anche delle istituzioni, della società civile e delle forze sociali. Potrebbe essere utile al riguardo una discussione ed un pronunciamento dei consigli comunali anche per riportare sui giusti binari la discussione sulle autonomie locali. Faccio l’amministratrice da quasi venti anni, ormai, e conosco la situazione in cui versano i comuni. Una ultima statistica ci ricorda che oltre il 90% di essi sono in gravi difficoltà economiche e a rischio di default. Che discussione sulle autonomie è quella che si dimentica della condizione in cui versano i comuni e si concentra esclusivamente sull’attribuzione dei poteri? Ecco perché dovremmo essere capaci di rovesciare i termini del confronto: il punto è la sanità in difficoltà e non di chi ne abbia la titolarità; il punto è la scuola pubblica che comincia ad essere un costo non sostenibile per tante famiglie e non la velleità di alcune regioni di appropriarsi della competenza ordinatoria e della definizione dei programmi scolastici.
L’autonomia differenziata di Calderoli si presenta come un fatto asettico, di ricerca dei migliori assetti utili a favorire il buon governo, ma in effetti tradisce la sostanza di un obiettivo identitario, una medaglia che il leghismo vuole appendersi al petto dopo il fallimento del suo tentativo di conquistare il sud in una prospettiva sovranista.
Bisogna far fallire questo disegno attraverso la mobilitazione e la lotta. Raccogliamo le firme in calce alla legge preparata dal sen Massimo Villone, moltiplichiamo le occasioni di confronto, coinvolgiamo il mondo della scuola ed anche gli studenti. Insomma facciamo tutto ciò che è necessario fare e facciamolo con un grande spirito unitario.
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