di Fabio Carbone
Le opposizioni hanno depositato alla Camera la proposta di legge unitaria per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. È il tentativo, l’ennesimo, di restituire dignità e civiltà a questo Paese nel ripensare radicalmente l’impianto dei processi produttivi e dell’economia.
«Lavorare meno, lavorare tutti» è uno slogan della sinistra extraparlamentare degli anni ’70 che insiste sull’idea di una riorganizzazione equa della società basata sul lavoro. In Italia il dibattito è fermo al 1997, quando Rifondazione Comunista presentò la proposta della riduzione delle ore lavorative settimanali a 35. Nel nostro Paese il ciclo di lotte operaie degli anni Sessanta e l’intensità del biennio ‘69/’70 registrò due storici e importantissimi risultati: lo Statuto dei Lavoratori e la riduzione delle ore lavorative settimanali da 48 a 40.
Gli ultimi vent’anni sono stati segnati da uno scontro prolungato tra chi voleva cambiare il mercato del lavoro a scapito delle tutele dei lavoratori e chi aveva avuto il sentore che la parolina magica del XXI secolo, “flessibilità”, fosse sinonimo di “precarietà”. La svolta liberista degli anni ’80 e il thatcherismo hanno lavorato a fondo per disaggregare i lavoratori come corpo sociale. Il mito della flessibilità e della versatilità è stato ampiamente divulgato per porre queste “qualità” come conditio sine qua non per la creazione di lavoro, unitamente al mito della libertà: liberi di lavorare quanto si vuole, liberi di scegliere di fare più lavori, liberi dal lavoro subordinato, dal “posto fisso”, questo vetusto e sorpassato Leviatano del XX secolo. Tutto per incrementare la produttività delle imprese e, con essa, le innumerevoli occasioni di crescita del lavoratore, alle prese con un sempre più avaro culto dell’insaziabilità.
In realtà, la grande trasformazione del mercato del lavoro che fece presagire ad un incremento di giustizia sociale ha portato, al contrario, alla vittoria della giustizia di mercato. Le pressioni dell’ideologia neoliberista hanno spinto verso la deregolamentazione del mercato del lavoro e alla subordinazione totale dei lavoratori alle imprese. Contrattazione sindacale ridotta al lumicino, contrattazione salariale nelle mani dei padroni, politica industriale a pezzi, liberalizzazioni di servizi di monopolio statale, paradigma della competitività applicato ad ogni ambito della vita lavorativa e sociale. Anche sul fronte della funzione politica dello Stato il paradigma della competitività ha assunto la veste di metro di giudizio per mostrarsi affidabile e credibile nei confronti dei mercati finanziari e degli investitori economici. Il lavoro, da diritto, è divenuto merce.
La parolina magica che dagli anni ’90 ci è stata propinata come la panacea a tutti i mali del mercato del lavoro, “flessibilità”, si è fatta, come ha scritto Luciano Gallino, “libertà legale di licenziamento”. La deregolamentazione del lavoro ha aperto il vaso di Pandore delle ingiustizie e delle disuguaglianze sociali: si sono sviluppate decine di tipologie di contratti di assunzione, si è favorita la contrattazione a livello aziendale rispetto a quella collettiva centralizzata. Tutto questo ha incrementato maggiormente la percentuale di lavoro nell’economia sommersa, ovvero quell’occupazione parallela dove il rapporto di lavoro non è affatto regolamentato o lo è parzialmente, creando delle aporie a livello fiscale e contributivo.
La società postfordista è una società flessibile, aperta 24 ore su 24, dove lavoro e consumo divengono complementari. Lo sviluppo tecnologico ci ha fornito la possibilità di pensare a ridurre e riorganizzare il lavoro. Ma la bulimia del capitalismo non può permetterlo. Le logiche del capitalismo sono lineari e granitiche: in una società in crisi, come quella attuale, aggredisce le tutele e i salari e sfrutta al massimo la forza lavoro residua. Aumento della disoccupazione, decentramento delle gerarchie delle imprese, ristrutturazione dei processi produttivi, abbassamento dei salari: sono queste le conseguenze della reazione del capitalismo e del neoliberismo allo stato di crisi, dove profitto e accumulazione sono al centro dell’opera di ristrutturazione dell’equilibrio. Ecco che allora il capitalismo ricorre a nuove strategie per conseguire vecchi obiettivi: le aziende lavorano sui dipendenti per “fidelizzarli”, cioè per renderli fedeli e leali ai codici della cultura aziendale, collaborativi e proni alle logiche aziendali, senza per questo intervenire sulla redistribuzione dei profitti e sull’adeguamento dei salari.
La globalizzazione e la relativa competizione che ne è seguita, a livello internazionale, hanno aumentato a dismisura la produzione di beni e servizi. Il tempo della vita si è allungato ma è diminuito il tempo del lavoro, perché alla richiesta incessante di formazione della “risorsa umana” segue spesso un ingresso nel mondo del lavoro ritardato. Alla pensione, le aspettative di vita sono molto più lunghe ma non sappiamo come valorizzarle. Non esiste la flessibilità dal volto umano, esiste lo sfruttamento.
Le logiche del capitalismo tramutano in cancrena tutto. Per esempio, tra gli istituti che disciplinano il lavoro c’è lo straordinario, del quale se ne fa oggi un uso indiscriminato. Questo è responsabile del fenomeno del jobless recovery, vale a dire della ripresa della produzione senza nuove assunzioni. Ciò accade perché le aziende, usando a spron battuto l’istituto dello straordinario per mantenere alta la produzione, hanno la giustificazione per non creare nuovi posti di lavoro.
Ci sono ragioni di giustizia sociale dietro la proposta della riduzione dell’orario lavorativo. In un sistema economico che non è più sostenibile e che sta implodendo inesorabilmente, nel tempo del capitalismo finanziario globale, nel tempo del lavoro precario e sommerso, il lavoro deve ritornare a dare dignità alla vita umana, ad essere motore propulsivo ma non ricatto sociale. Lavorare meno, lavorare tutti non è soltanto una ricetta che agisce sul livello socio-economico della società. Spesso, quando si parla della redistribuzione del lavoro e della riduzione dell’orario lavorativo, si tende a focalizzarne l’obiettivo nell’accrescimento della produttività, ovvero il rapporto tra la quantità prodotta e l’insieme dei fattori di produzione (tempo, mezzi). Ma fermiamoci un attimo a riflettere.
Riprendendo brevemente Marx e Marcuse, l’uomo è semplicemente ingranaggio di un sistema enorme, il capitalismo, intrappolato in un rapporto di dipendenza e subordinato al capitalista. Rapportando questo stato di cose al tema di questo scritto, sarebbe opportuno un approccio umanista più che economicista, soprattutto da parte delle classi dirigenti e delle istituzioni. Entrare, cioè, nell’ottica che la riduzione dell’orario di lavoro, prima che per accrescere la produttività del lavoro, deve servire al soddisfacimento delle esigenze di auto-realizzazione dell’individuo e, quindi, al conseguimento della sua felicità e del benessere psicologico. Dovremmo, cioè, comprendere che il concetto di produttività è legato al concetto di consumatore, mentre l’individuo in quanto tale dovrebbe perseguire la felicità in quanto cittadino. La centralità del consumatore, nella società neoliberista, si traduce nella subalternità dell’individuo. È la lex mercatoria del mondo di oggi, che mostra tutti i suoi effetti nell’inferno della Gig Economy, come ci ha ricordato crudamente Ken Loach in Sorry We Missed You. Ed è qui che si innesta la sfida tra la conciliazione del tempo di lavoro e del tempo di vita, per soddisfare, come diceva Berlinguer, i grandi bisogni dell’uomo e della collettività.
Ma occorre una riflessione seria, urgente e di carattere radicale, che coniughi tutti i temi legati a questo: mercato del lavoro, calo demografico, aspettativa di vita, nuove tecnologie, invecchiamento della popolazione, redistribuzione della ricchezza, livello dei salari.
Non si può più vivere per lavorare, ma neanche solo lavorare per vivere. Francesca Coin, con il suo saggio sul fenomeno delle dimissioni di massa nell’epoca post-Covid, ce lo ha spiegato bene. Questo modello di sviluppo non è più sostenibile come non è sostenibile il peso delle politiche scaricato sulla classe lavoratrice, mentre multinazionali, grandi imprese e ricchi continuano a generare profitti colossali al limite dell’indecenza.
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