L’Europa alla prova del coronavirus

di Raffaele Cimmino

Il coronavirus che da Wuhan si è in poche settimane diffuso in quasi tutto il globo sta mettendo
pesantemente alla prova i paesi europei e la Ue. Mentre i cittadini europei, e i britannici protagonisti
della brexit, stanno sperimentando insieme l’esperienza del lockdown che solo poche settimane fa
sarebbe sembrata una fantasia distopica, l’economia europea, che già arrancava, minaccia
seriamente di subire un colpo durissimo da cui uscire potrebbe essere assai complicato. I processi
degli ultimi anni sembravano avviare se non una deglobalizzazione almeno una globalizzazione
assai diversa da quella teorizzata dai suoi teorici. Ora l’evento inaspettato e catastrofico della
pandemia di coronavirus, il “cigno nero” che qualcuno aspettava, ha affossato ogni idea di
riorganizzazione delle economie occidentali, che peraltro si sono mai davvero riprese dal grande
shock del 2008.
Di fronte a questo quadro di emergenza i governi europei si sono mossi cercando di sostenere
l’economia e i consumi con stanziamenti importanti. Il governo italiano dai 3 miliardi iniziali ha
spianato un mini-bazooka, per lo standard italiano si intende, di 25 miliardi, riservandosi altri
interventi per almeno il doppio della cifra già ad aprile portando il deficit ben oltre il 3%. La
Germania a sua volta impegna la cifra di 150 miliardi di euro liquidi e 500 di assistenza ai crediti a
garanzia dei crediti da immettere nell’economia per il sostegno alle imprese e direttamente ai
redditi. Da ultimo, gli Stati uniti sono arrivati a stanziare ben 2000 miliardi di dollari, il più grande
intervento statale in tempo di pace.
Ma se i singoli Stati sembrano aver compreso la gravità della situazione muovendosi di
conseguenza, le istituzione europee ancora balbettano. Come se ancora non si capacitassero della
portata degli eventi. La presidente della BCE Cristine Lagarde ha esordito con la frase “Non tocca
alla BCE chiudere gli spread” che è stata presentata come una gaffe ma che invece ha denunciato
chiaramente la sua intenzione di rispettare lo statuto della Banca centrale, ritenendo ormai chiusa
l’eccezione della presidenza Draghi. Il ritorno ai bei tempi andati, insomma. Solo che i tempi sono
tutt’altro normali. La scossa che ne è derivata ha fatto traballare l’architettura della moneta unica sui
mercati costringendo la Lagarde a un rapido dietrofront. Non solo. Sono bastate meno di due
settimane perché la BCE tornasse precipitosamente alla “cura Draghi” annunciando che avrebbe
sostenuto i titoli dei paesi europei e disponendosi al “whatever it takes” con un bazooka di 750
miliardi che alimentano un programma di emergenza pandemica (Pepp). Si prepara dunque ad
acquisti massicci di titoli inondando di liquidità il sistema se sarà necessario. Alla difficoltà
evidente delle già affannate economie europee la commissione è venuta incontro sospendendo per
la prima volta nella storia il patto di stabilità per uno shock esogeno e ha attivato la clausola
d’emergenza. Questa è la ragione per cui all’Italia viene consentito di sforare il deficit.
Tutte queste misure sono state prese affannosamente uno dopo l’altra, via via che ci si è resi conto
della portata di un evento che rischia di essere catastrofico quanto una guerra ora che i mercati di
sbocco per l’Europa sono tutti chiusi e le filiere internazionali del commercio sconvolte. Da ultimo,
il consiglio d’Europa ha visto il fronte del nord guidato dalla Germania fare muro alla richiesta di
eurobond o almeno di utilizzare i fondi del Mes senza condizionalità di cui i restanti paesi
dell’eurozona capitanati da Italia e Spagna, ma con la Francia sulle stesse posizioni, si sono fatti
portavoce. Il muro contro muro è finito in un nulla di fatto e con un rinvio di due settimane. Nulla
di buono all’orizzonte.
Come affrontare in modo coordinato questa emergenza utilizzando il massimo della flessibilità
(assai scarsa) consentita dai trattati per fare fronte agli eventi e al tempo stesso preservare
l’architettura dei trattati evitando pericolosi precedenti sembra essere l’assillo della burocrazia a
guida tedesca di Bruxelles. Per il nucleo nordico della Ue, i falchi di Germania e Olanda in prima
fila, vale il principio per cui si concede al massimo di una deroga una tantum che prevede di per sé
il ritorno alla normalità. Come arrivarci sembra però un enigma di difficile soluzione. La proposta
di utilizzare il MES, il meccanismo europeo di stabilità la cui firma di adesione è stata rinviata per
gli eventi in corso, come ordinario di strumento di cri con il corollario di pesanti condizionalità è
allo stato delle cose inaccettabile. Va detto subito che il governo italiano ha chiesto di attivare le

risorse del MES utilizzandole per tutti i paesi europei sospendendo le pesanti condizionalità che lo
accompagnano, non quindi come ciambella di salvataggio di un singolo spese in difficoltà. Le
condizionalità sono misure di rapida riduzione del deficit e del debito, già parte del Fiscal compact,
di entità tale da imporre anni di lacrime e sangue. Prendere la Grecia e moltiplicarla più volte per
quanto è grande in confronto il pil e la popolazione dell’Italia potrebbe dare una vaga idea di quello
che succederebbe. Per un paese con il debito pubblico come il nostro accettare la procedura
ordinaria del Mes con le clausole di condizionalità meno favorevoli equivarrebbe a un suicidio e la
riduzione a protettorato. Opzione inaccettabile. L’alternativa potrebbe essere l’utilizzo delle risorse
del MES, 450 miliardi, finanziati attraverso i cosiddetti coronabond, una sorta di eurobond
finalizzati all’emergenza il cui peso graverebbe su tutti i paesi europei. E’ una proposta sostenuta da
Italia, spagna e Francia al tavolo europeo. Si tratterebbe di una porzione assai modesta di debito
pubblico europeo. Ma è un’ipotesi massimamente invisa ai nordici che temono l’apertura di un più
largo processo di mutualizzazione dei debiti pubblici nazionali. Infatti è stata respinta senza mezzi
termini.
In realtà, per quanto rese impraticabili dall’opposizione della Germania e dei suoi satelliti, si tratta
probabilmente di misure a questo punto già insufficienti per far fronte al disastro che il coronavirus
produrrà sulle economie e sui bilanci dei paesi europei. Come il QE di Draghi riuscì nell’obiettivo
di sostenere l’euro ma non in quello di far arrivare liquidità nell’economia reale così gli eurobond, o
coronabond, per quanto auspicabili come soluzione di breve periodo, sembrano uno strumento poco
utile oltre la stretta emergenza. Se poi il debito non venisse condiviso tra tutti i paesi europei e
rientrasse nei debiti nazionali che i singoli stari sarebbero poi chiamati a ridurre, saremmo davanti a
una farsa. Si chiederebbero coronabond per aprire e attrezzare ospedali che poi dovranno essere
chiusi per ripagarli.
Al contrario, come suggerisce anche l’appello di 32 economisti italiani pubblicato dal Financial
times occorre non solo derogare ma mettere definitivamente in mora le politiche sbagliate che
hanno retto la UE in questi ultimi anni. L’urgenza è quella di fare arrivare denaro direttamente nella
tasche dei cittadini europei per sostenere la domanda che sarà spianata dalla crisi sanitaria ed
economica. Insieme, servono risorse che arrivino nel circuito dell’economia reale attraverso un
meccanismo di credito non inceppato dalla finanza. Ma soprattutto servono investimenti pubblici.
C’è un unico modo per sopperire alla mancanza di coordinamento delle politiche fiscali e
monetarie: trasformare la BCE in un vero prestatore di ultima istanza. Solo così si potrebbe riuscire
a finanziare un grande piano di investimenti pubblici che garantisca la ripresa economica
dell’eurozona, il rilancio dell’occupazione e la riconversione produttiva, insomma tutto quello che
potrebbe trasformare una recessione profondissima in un rilancio su basi nuove dell’economia
europea. Tecnicamente l’obiettivo si potrebbe realizzare se la BCE comprasse titoli di stato a
rendimento zero o prossimo allo zero per poi collocarli presso le banche centrali. Si genererebbero
così risorse senza limiti precostituiti che oggi, per i meccanismi dei trattati e per il ruolo statutario
di sola guardiana dell’inflazione della BCE, sono introvabili.
Si tratterebbe di un vero salto di paradigma e di un mutamento di pelle dell’Unione europea e di
funzione della BCE per come l’abbiamo finora conosciuta. Un scelta che richiede una forte volontà
politica e una coesione fin qui inesistenti. Tutto lascia pensare che non ci siano le condizioni per
questo salto. Quella in corso piuttosto che una battaglia per l’Europa come l’hanno costruita le élite
somiglia molto a una lotta per mantenere le vecchie gerarchie e catene di comando. Ma le regole
della vecchia Europa non esistono già più. Volerle imporre ai paesi come l’Italia, con un’economia
di tutt’altra taglia della Grecia, è inaccettabile. IN più l’Italia non è sola come lo era la Grecia ma è
parte di un fronte più largo a cui partecipa, fattore non secondario, la Francia.
I governi nazionali oggi hanno l’obbligo di muoversi per salvare i propri cittadini e la propria
economia, come del resto sta facendo la Germania che non ha caso non ha chiesto il permesso a
nessuno. Questo è il senso anche delle dichiarazioni di Mario Draghi che invita a fare debito pur di
salvare l’economia produttiva e l’occupazione, sfatando in un colpo solo tutti i tabù della

governance ordoliberista che le élite tedesche tentano ancora pervicacemente di imporre a tutti gli
altri stati dell’eurozona.
In conclusione, è il caso di prendere che quello in corso in Europa per effetto della crisi del
coronavirus è in tutta evidenza uno scontro politico all’ultimo sangue in cui tutte le contraddizioni
accumulatesi per anni stanno venendo alla luce. L’unica certezza di questo scontro è che non basta
più qualche pragmatica mediazione ma si si è arrivati al punto in cui l’Europa o cambia o implode.

Be the first to comment

Leave a Reply