Ma quale sicurezza?

di Gabriella Notorio

lI Ddl Sicurezza del Governo Meloni cancella la libertà di manifestare il proprio pensiero e criminalizza il dissenso, introducendo pene severe contro soggetti e categorie più fragili e vulnerabili ai quali si vuole tappare la bocca. Sono presi di mira i migranti, i Rom, i lavoratori a rischio di disoccupazione o che protestano per i propri diritti e contro le ingiustizie sui luoghi di lavoro. Non solo; anche gli ambientalisti, i manifestanti contro il clima, chi imbratta e danneggia un edificio pubblico oppure chi protesta contro le opere pubbliche strategiche, come il Ponte sullo Stretto di Messina o la Tav. E non è un caso.

Persino il blocco stradale e ferroviario, anche se condotto in modo pacifico, non è più ritenuto possibile. E da semplice illecito amministrativo diviene un reato penale a tutti gli effetti.

E cosa introduce il Ddl Sicurezza per chi compie reati gravi contro la persona?

Nulla! Tutto tace!

Se il governo Meloni ad oggi affrontasse, ad esempio, il tema dei femminicidi come si occupa di tutte queste cose avremmo sicuramente meno donne morte per mano di chi affermava di “amarle”.

È vero, il Codice Rosso della Legge n.69/19 ha già provveduto ad inserire nuovi reati sul tema, come il Revenge Porn, o ad aggravare i reati già esistenti, lo stesso reato di maltrattamenti domestici e/o verso familiari.

Ma davvero basta?

Ogni tre giorni una donna perde la vita per femminicidio, potremmo addirittura dire ogni due. Eppure ciò viene puntualmente ignorato da un governo che assume sempre più le vesti di uno stato totalitario e si illude di affrontare le insicurezze sociali attraverso la repressione.

Ed è così che temi che richiedono un dispendio maggiore di conoscenze, strumenti e risorse, come la violenza sulle donne e i femminicidi, vengono invece bistrattati.

Tra il semplice punire e il prevenire si opta  per quelle soluzioni apparentemente a “costo zero”, che non necessitano di fondi da parte del governo e si basano su una semplice modifica del codice penale. Avviare interventi nelle realtà scolastiche ed educative sarebbe certamente più gravoso, perché l’ausilio di misure professionali precise inciderebbe su costi sui quali non si sceglie di investire.

Soprattutto, per Giorgia Meloni l’idea di introdurre nelle scuole l’educazione affettiva e di genere, che rappresenta il principale strumento di prevenzione contro le violenze,  non è pensabile. Non è realizzabile perché considerato un indottrinamento, un qualcosa che non piace assolutamente, basti ricordare la proposta della legge Zan.

La parola “genere” da sempre fa paura alla destra. Spaventa come fosse un mostro.

In fondo, la questione è culturale. Nasce da un’arcana paura di riconoscere a tutte le persone gli stessi diritti e libertà. E poi è chiaro che ci imbattiamo in un’ambigua radice culturale di tolleranza rispetto al dilagare stesso delle violenze, sia di genere e sia contro le donne, in ogni contesto ed ambito.

Non c’è mai un momento di riprovazione sociale, se non il 25 Novembre o il giorno in cui la notizia della morte di una donna giunge alla cronaca. Il prima e il dopo viene lasciato all’indifferenza e al disinteresse. Su queste basi purtroppo continueranno a moltiplicarsi i femminicidi, perché sarà difficile cambiare la visione culturale di un Paese in cui il femminismo patriarcale di chi ama farsi chiamare “presidente” inneggia e si diffonde a macchia d’olio.

Alla Meloni le donne e i bambini non interessano affatto se non quando c’è da intervenire contro la legge sull’aborto, se non quando si deve parlare di donne in quanto mogli e madri.

Intanto, bambini e bambine continuano a crescere in Italia senza poter disporre di strumenti in grado di favorire il riconoscimento dei segnali di pericolo, tipici della cultura patriarcale, alla base delle discriminazioni e delle violenze contro le donne. Senza aver modo di imparare a regolare le proprie emozioni attraverso il contributo di professionisti esperti, come ci ricorda la Convenzione di Istanbul, ratificata anche dall’Italia nel 2014.

Agli articoli 5 e 6, la Convenzione di Istanbul obbliga tutti gli Stati Membri, tra cui l’Italia, ad un impegno preciso: prevenire il verificarsi delle violenze, con misure tali da ridefinire i ruoli di genere, inclusi gli stereotipi che rendono accettabile il fenomeno della violenza, creando tolleranza sociale. Prevenire e non solo punire.

La rabbia non gestita, la frustrazione e l’odio, la cultura e i modelli patriarcali sono, invece, molto spesso presenti nei femminicidi. Temi che vengono affrontati nell’educazione affettiva e di genere, ma il Governo Meloni purtroppo continua ad andare contro la Convenzione di Istanbul, contro la relazionalità positiva, contro le donne e contro i bambini.

Be the first to comment

Leave a Reply