Non spegni il sole se gli spari addosso. Riannodare i fili a ventitré anni dal G8 di Genova

*Non spegni il sole se gli spari addosso. Riannodare i fili a ventitré anni dal G8 di Genova*

di Fabio Carbone

Per quarant’anni il dogma thatcheriano del “There is no alternative” ha indirizzato e inquinato l’azione di una corposa maggioranza di esecutivi internazionali. Nella transizione del 1989 l’ideologia neoliberale ha applicato il suo giogo alle socialdemocrazie post-comuniste, orfane di una visione di trasformazione della società, legittimando così la superiorità culturale del capitale sullo Stato, del neoliberismo sul keynesismo, dell’individuo sulla società. In Europa il processo di costruzione di una comunità politica, economica e monetaria è stato impregnato di dottrina neoliberale e implementato da una architettura monetarista per imporre un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza.

 

Tra la fine degli anni Novanta e il primo lustro dei Duemila la società civile globale ha esplorato la strada della resistenza alla globalizzazione neoliberale, contrapponendo ad essa una globalizzazione dei diritti, individuando modi innovativi di affrontare problemi globali e di proporre soluzioni globali. A Seattle prima e a Genova poi, il movimento altermondialista ha disegnato e proposto percorsi per mutare la prima globalizzazione nella seconda. Nonostante l’assuefazione della sfera politica alle logiche del neoliberismo, si affermò una moltitudine globale che pose al centro del dibattito i temi dei diritti umani, dell’ambiente, della pace, del debito nei paesi sottosviluppati, dei diritti del lavoro, della cooperazione allo sviluppo, della regolamentazione della finanza e delle transazioni valutarie, il tema della proprietà intellettuale e delle clausole di brevettazione, del reddito delle multinazionali, della sovranità alimentare e della sobrietà energetica. Il G8 del 2001 a Genova fu la cassa di risonanza internazionale della richiesta di una nuova grammatica politica.

 

Sono trascorsi 23 anni da quel torrido luglio del 2001. Un’era geologica. Nella memoria collettiva il G8 di Genova è ancora oggi materia fertile per i fatti di ordine pubblico che hanno lasciato una macchia nera, oscura, indelebile, nella storia del nostro Paese, dall’omicidio di Carlo Giuliani in Piazza Alimonda il 20 luglio alla violenza efferata della polizia, nella notte tra il 21 e il 22 luglio, nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto. Ma Genova 2001 è stata molto altro: la prova di maturità del movimento globale per un altro mondo possibile, un movimento che, nelle sue numerose componenti, ha permesso la riapertura di una lotta politica di grande respiro, su questioni sulle quali la politica aveva da tempo ceduto il controllo all’economia finanziarizzata e, più precisamente, la politica dei partiti di sinistra aveva rinunciato a contrastare il dominio di un disegno egemonico quale era la iper-globalizzazione neoliberista, anzi assuefacendosi ad essa. Genova 2001 ha incoraggiato un biennio di grandi fermenti sociali, a livello nazionale (come la manifestazione della CGIL del 23 marzo 2002 contro il tentativo dell’allora governo Berlusconi di abolire l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori) ed internazionale (come la manifestazione globale contro la guerra in Iraq del 15 febbraio 2003). Riprendendo le parole di Susan George, fu il primo movimento di massa della storia che non chiedeva niente per sé, voleva solo giustizia per il mondo intero.

 

A ventitré anni da quel potente “J’accuse” mosso ai grandi della Terra (“Voi G8, Noi 6.000.000.000”, “Voi la malattia, noi la cura”), sentiamo la necessità di fare memoria di quella stagione da tanti vissuta come epifenomeno, perché tante questioni poste dal movimento altermondialista sono rimaste irrisolte o tardivamente riconosciute, Cassandre inermi, come giuste dalle élites politiche globali. Nella sessione di apertura del Genoa Social Forum, nel pomeriggio del 16 luglio, Susan George e Walden Bello denunciarono la pericolosità dello spostamento continuo e massiccio dei profitti e dei capitali dall’economia reale alla finanza e della loro estrema volatilità: questo avrebbe prodotto ben presto effetti economico-sociali drammatici nel continente europeo e, ancor di più, l’economia finanziarizzata avrebbe acuito la contrapposizione insanabile tra economia capitalista ed ecologia. Lo scoppio della crisi del 2008, l’aumento delle diseguaglianze economico-sociali, l’emergenza climatica e i disastri ambientali dell’ultimo decennio, l’incremento delle migrazioni di massa sono prove incontestabili dell’insostenibilità del modello di sviluppo capitalistico e dell’iper-globalizzazione neoliberista che a Genova si contestava e si contrastava. Proviamo a ripercorrere il filo che lega le denunce di quelle giornate e la situazione attuale.

 

Nel momento in cui si scrive si rileva un fermento globale sulla questione del cambiamento climatico, oggi divenuto emergenza climatica. A nove anni dall’Accordo di Parigi e a trentadue dalla Convenzione quadro di Rio, e nonostante gli accorati appelli e le rigorose valutazioni dell’IPCC a disposizione di governi, istituzioni, organizzazioni e cittadini, gli indicatori climatici sono sempre più fuori controllo. Sono sempre più drammatici e con toni apocalittici i rapporti scientifici sul clima, come drammatiche sono le immagini che si susseguono sui media di ghiacciai sciolti, di milioni di ettari di terre e foreste bruciate, di temperature elevatissime in regioni settentrionali del mondo, di calamità naturali che cancellano l’impronta antropica e devastano città, villaggi, campagne, con conseguenze importanti sulla salute e sul tenore di vita di milioni di individui. La ritrosia per volontà politica dei governi nazionali ha contribuito enormemente al ritardo accumulato sugli obiettivi climatici e sul non plus ultra del riscaldamento globale rappresentato dall’aumento di 1,5° C al di sopra dei livelli registrati in epoca preindustriale. Il movimento altermondialista ha fatto della lotta ai cambiamenti climatici una delle questioni fondamentali, la madre di tutte le lotte, perché l’emergenza climatica avrebbe generato a catena decine di altre emergenze economiche e sociali, da quella alimentare a quella securitaria, da quella energetica a quella sanitaria. Ma oggi tra le priorità dei governi globali sembra non avere uno spazio di primo piano la questione climatica, se si riconosce, sì, l’importanza fondamentale di raggiungere emissioni nette globali di gas serra pari a zero o la neutralità del carbonio, ma non entro la precisa data del 2050, obiettivo fissato dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti, ma genericamente entro o intorno alla metà del secolo. Questo riferimento temporale molto più vago è richiesto da Paesi più indietro nella transizione ecologica e pienamente proiettati nella visione dell’industrializzazione e dell’energia fossile come motori della crescita economica interna, sensibili alle questioni economiche derivanti dallo sfruttamento delle risorse fossili perché esportatori di petrolio e gas.

 

La questione climatica è oggi protagonista del dibattito mondiale, istituzionale e dell’opinione pubblica, ma al netto degli impegni sottoscritti e degli annunci in mondovisione, è da rimarcare la totale assenza della critica al modello di sviluppo capitalista. «Sviluppo sostenibile», «green economy», «Green Deal», «transizione ecologica» ed altre formule semantiche rischiano di trasformarsi in un esercizio di stile retorico se le élites istituzionali globali e i governi nazionali continueranno a credere di poter curare la malattia con un modello di sviluppo che fa del proprio postulato irrinunciabile «l’accumulazione per l’accumulazione, la produzione per la produzione», la tramutazione in profitto di ogni elemento della biosfera.

 

Una questione tra le più rivendicate dal movimento altermondialista era il tema del debito pubblico, strumento di dominio nelle mani delle élites finanziarie ed economiche globali. La Grande Recessione del 2008 ha mostrato al mondo quanto potente sia l’arma del debito. A Seattle e Genova si contestavano i piani di aggiustamento strutturale imposti dal FMI ai paesi in via di sviluppo, in prevalenza africani e sudamericani, come conditio sine qua non per accedere ai finanziamenti internazionali. La ricetta neoliberista dei PAS è stata poi applicata ai paesi dell’Europa meridionale, di cui la Grecia è stata l’emblema della spirale di lacrime e sangue delle politiche implementate dalla Troika nell’ultimo decennio.

 

Il 19 luglio 2001 il Genoa Social Forum aprì i lavori con il corteo dei migranti, a sottolineare l’intima connessione tra il destino dei rifugiati e le enormi diseguaglianze economico-sociali generate nel Sud del mondo dal neoliberismo e da questo modello di sviluppo energivoro e metastatico. L’olocausto di migranti che si consuma da un decennio nelle acque del Mediterraneo, iniziato con la crisi migratoria dei rifugiati delle guerre civili siriana e libica che mise l’Unione Europea di fronte ad una drammatica crisi umanitaria, conferisce una veste profetica alle considerazioni del movimento altermondialista. Né gli stati nazionali o le comunità sovranazionali sembrano voler addentrarsi nella spinosa e complicata materia delle migrazioni, individuando e agendo sulle responsabilità situate a monte dello squilibrio tra i redditi e la ricchezza mondiali, e preferendo guardare sulle soluzioni prospettate a valle, divise tra un’etica dell’ospitalità e un’etica della sicurezza.

 

Già a partire dal 1998, quando dalle colonne de “Le Monde diplomatique” Ignacio Ramonet rilanciò l’idea dell’introduzione di una imposta sulle transazioni finanziarie (Tobin Tax), gli avvertimenti sulle conseguenze della finanziarizzazione selvaggia e senza regole dell’economia (e delle economie) si susseguivano in un crescendo di preoccupazioni sulla tenuta dei sistemi democratici e sulle conseguenze sociali generate dalle turbolenze dei mercati finanziari. Rimasta inattuata per anni, la proposta di una tassa sulle transazioni finanziarie fu ripresa all’indomani dello scoppio della bolla speculativa dei mutui subprime che diede inizio alla Grande Recessione, come parte integrante di una strategia di riforma del sistema finanziario internazionale, che è come dire chiudere la stalla dopo la fuga dei buoi. Solo dopo vent’anni qualcosa si è mosso, anche se in una direzione diversa. La questione di una strategia globale di tassazione è stata ripresa nella versione di una Global Minimum Tax, una aliquota minima del 15% sugli utili delle grandi multinazionali in 136 Paesi del quadro OCSE/G20. Con considerevole ritardo rispetto ai tempi della globalizzazione e alle denunce inascoltate del movimento altermondialista sui movimenti di capitali e sui profitti delle multinazionali, le istituzioni e i governi tentano oggi di governare disperatamente la globalizzazione stessa, che ha sviluppato numerose e indefinibili forme di imprenditorialità dematerializzata e digitale, che sfugge ai criteri classici delle giurisdizioni territoriali. Ma anche in questo caso l’azione impositiva a livello internazionale sconta la resistenza di diversi Stati tradizionalmente “morbidi” in tema di tassazione sulle imprese multinazionali.

 

Al di là di quello può apparire come un esercizio di stile, rivendicare le ragioni del movimento altermondialista e riconoscerne la potenza generatrice significa riconoscere che la narrazione neoliberista del capitalismo post-industriale, anche se è stata la sola a permeare l’azione collettiva di governi e istituzioni nel corso degli ultimi quarant’anni, non era l’unica possibile. Quella stagione è ancora attuale non solo nella memoria degli attivisti dei nuovi movimenti, ma anche nella osservazione che da quelle mobilitazioni a cavallo tra Seattle e Genova, i movimenti di protesta contro la globalizzazione neoliberista si sono poi moltiplicati nella dimensione locale anti-austerità e nella dimensione di una critica all’evoluzione di un capitalismo neoliberista che è entrato in crisi ma non è scomparso. È opinione largamente condivisa che i movimenti sociali di protesta, quale forma di partecipazione politica non convenzionale, abbiano individuato le contraddizioni del neoliberismo e dell’economia capitalista più di quanto non lo abbiano fatto le classi dirigenti politiche. L’afflato globale del movimento è stato unico nel suo genere perché ha coniugato lotte diverse fra loro senza ordinarle in uno schema gerarchico o verticistico. Quel movimento fu capace di organizzare il conflitto, anzi i conflitti, coi piedi ben piantati nel Novecento ma con la testa rivolta al domani, intuendo che solo attraverso un fronte transnazionale e globale di attori sociali si sarebbe potuto contrastare il controllo sociale del neoliberismo in un mondo iper-globalizzato, interconnesso e nel quale l’iper-connessione dei sistemi produttivi, delle economie e dei sistemi finanziari può gettare sull’orlo del baratro politico-economico interi Stati e milioni di individui in poco tempo.

 

Ogni fenomeno sociale successivo alla stagione di Genova ha un filo di collegamento con questa, perché ogni tematica e ogni questione affrontata in quegli anni si è poi disvelata in tutta la sua potenza, dal rischio rappresentato dalla finanza speculativa e dalla finanziarizzazione dell’economia, che avrebbe destrutturato interi sistemi democratici, al monopolio dei brevetti; dal riscaldamento globale alle migrazioni di massa; dalla difesa dei beni comuni contro le speculazioni finanziarie e la loro mercificazione ai non-luoghi, per dirla con Marc Augé, in cui sarebbero stati confinati i rifugiati e i migranti, stretti tra la tenaglia delle guerre economiche combattute in casa loro e quella delle politiche dei muri dei paesi ricchi. Quel movimento globale a cavallo di due secoli coinvolse milioni di persone da ogni parte del globo per denunciare l’inutilità e la pericolosità di due guerre che avrebbero destabilizzato una regione intera e riversato le conseguenze umanitarie sull’Europa. L’accentuato processo di individualizzazione nella società, il disimpegno dalla politica, la degenerazione della democrazia e delle sue qualità a funzione della governabilità a scapito della rappresentanza, la rinuncia dei partiti a trasformare complessivamente la società, tramutati da centro di mediazione tra società e Stato a public utilities, la logica della competitività e dell’efficienza, concetti tipici della sfera economica, estesi alla sfera antropologica, il controllo delle attività umane affidato agli algoritmi, la riduzione dell’individuo a risorsa umana per moralizzarlo e fissarlo intorno ai luoghi della produzione, tutto ciò rappresenta e conferma la pervasività di un paradigma di sviluppo che anestetizza gli spazi della critica, perché ha trasformato le sue pratiche economiche in fenomeni culturali a cui il potere politico stesso si è omologato, accettandolo e interiorizzandolo come se fosse una legge di natura.

 

Quel movimento globale non esiste più. Non esiste più nel senso dell’essere una moltitudine transnazionale e globale, corpo e intelligenza collettiva di un processo che pratica una visione del mondo alternativa. Sono esistiti ed esistono, però, movimenti ed esperienze eredi di quella stagione, come abbiamo visto nel corso di questi anni. Quella grande esperienza collettiva non è fallita, ma ha scontato due fattori importanti: il primo, mediaticamente forte, la militarizzazione dello spazio pubblico globale in conseguenza all’11 settembre 2001. L’abuso del concetto di “terrorismo” e la criminalizzazione del dissenso hanno influito non poco nei confronti di un movimento che della sua dimensione pubblica di piazza faceva uno dei punti della propria forza, perché le immagini e i video dei cortei chilometrici e delle piazze colme dei controvertici destavano l’interesse dell’opinione pubblica e del cittadino medio in un mondo che iniziava ad essere sempre più connesso ed interconnesso, e aggregavano intorno alle questioni rivendicate dagli attivisti. Il secondo elemento che ha influito nel disgregare la stagione dell’altermondialismo e nel disperderne i semi in centinaia di altri movimenti è stata la crisi finanziaria del 2008, un vero e proprio spartiacque che ha modificato equilibri e meccanismi politici, economici, sociali e culturali. La trasformazione complessiva della società tocca alla politica, non ai movimenti sociali. Ma in una società frammentata e dispersa una coscienza movimentista può coadiuvare i processi di organizzazione collettiva in modo trasversale e suggerire alla politica una analisi critica dello stato di cose presente.

 

Se ci si chiede se si porranno nuovamente le condizioni per un processo globale, unitario e multiforme come un nuovo intellettuale collettivo, non è dato ancora saperlo. Il nostro tempo liquido, per usare le parole di Bauman, ci ha dimostrato che occorre una capacità di critica dell’esistente con un solido impianto intellettuale e forti pratiche alternative di gestione del potere per resistere agli sconvolgimenti sempre più repentini della società e della politica. La società post-pandemica e post-moderna è ancora ricca di fermenti associativi e di azione collettiva dal basso. Quello che occorre è una soggettività politica capace di rompere la cristallizzazione dell’individualismo tardo-capitalista e riallacci quel filo rosso del processo di politicizzazione di massa che fu capace di mobilitare il mondo intero, “6.000.000.000” contro 8.

 

Genova non è ancora finita. Avevamo ragione noi. Lo scrivo con gli occhi umidi, perché ricordare l’inferno di via Tolemaide, l’orrore di Piazza Alimonda e la ferocia cieca della notte alla Diaz è un esercizio di memoria doloroso. Ma è necessario farlo, perché Genova non è mai finita. Abbiamo ancora ragione noi. Un altro mondo è – ancora – possibile.

Be the first to comment

Leave a Reply