
di Fabio Carbone
L’Unione Europea è stata fondata con l’obiettivo di garantire la pace e la cooperazione tra i popoli, promuovendo il benessere economico e sociale attraverso un’integrazione progressiva. La direzione intrapresa dalle istituzioni europee da tre anni a questa parte non ha nulla in comune con quel sogno di speranza nato da Ventotene. Dal disinnesco dei nazionalismi doveva nascere la cultura della pace, per promuovere il disarmo, per rifiutare la logica della contrapposizione e della guerra. L’Europa doveva diventare un modello alternativo al capitalismo degli Stati Uniti e finanche al socialismo burocratico e illiberale della allora staliniana Unione Sovietica. L’Europa avrebbe dovuto nazionalizzare le fabbriche legate ai beni strategici, come l’energia, avrebbe dovuto garantire a tutti una sanità e una scuola pubblica di eccellenza. Questo modello è esattamente l’opposto dell’Europa dell’austerità, costruita per demolire i sistemi di welfare e favorire la privatizzazione, che crea il profitto di pochi.
È pericoloso e fuori ogni logica il Piano “Rearm Europe” presentato da Ursula von der Leyen. #RearmEurope prevede l’attivazione della clausola di salvaguardia del Patto di Stabilità e Crescita per consentire l’aumento della spesa militare nazionale (l’acquisto di nuovi armamenti dagli Stati Uniti) al di fuori dei vincoli di bilancio. L’aumento del budget militare a discapito degli investimenti in sanità, istruzione, welfare e cultura rappresenta una deviazione significativa dai valori fondativi dell’UE. Attualmente, l’Unione Europea e il Regno Unito spendono in armamenti una cifra tre volte superiore a quella della Federazione Russa. Nonostante ciò, le istituzioni comunitarie, con in testa la Commissione di Ursula von der Leyen, perseguono una politica di ulteriore incremento delle spese militari, alimentando una dinamica che rischia di innescare una spirale di instabilità e competizione bellica.
Negli ultimi tre anni, il Parlamento Europeo ha adottato risoluzioni che contribuiscono a un’escalation del conflitto in Ucraina, allontanando ogni prospettiva di negoziato e compromettendo il ruolo diplomatico dell’Europa. Tale atteggiamento contraddice le strategie di pace e cooperazione sostenute da padri nobili come Willy Brandt, Olof Palme, Enrico Berlinguer, Giorgio La Pira, Sandro Pertini, che vedevano nella distensione e nella collaborazione internazionale gli strumenti fondamentali per garantire la sicurezza collettiva.
Tuttavia, il problema dell’attuale assetto dell’UE non si limita alla questione del riarmo. Esso affonda le sue radici nella struttura economico-politica definita dai Trattati di Maastricht del 1992, che hanno posto le basi per una governance europea fondata su principi neoliberali e sulla rigida osservanza dei vincoli di bilancio. L’imposizione di parametri stringenti in materia di deficit e debito pubblico ha determinato una progressiva erosione delle politiche redistributive e una riduzione dello spazio fiscale necessario per attuare strategie di welfare e investimenti pubblici. Questa impostazione ha rafforzato le disuguaglianze tra gli Stati membri, penalizzando le economie più fragili e consolidando un modello che favorisce la competitività di mercato a scapito della coesione sociale.
Il paradigma della rigidità di questo impianto è la crisi greca del 2015. In quell’occasione, l’Unione Europea ha imposto severe misure di austerità al governo ellenico, paralizzando l’economia nazionale e compromettendo gravemente il tessuto sociale del Paese. La chiusura forzata delle banche, la riduzione drastica dei servizi pubblici e il crollo del potere d’acquisto della popolazione hanno mostrato con chiarezza le conseguenze di un’Europa vincolata alle logiche finanziarie piuttosto che orientata alla solidarietà tra gli Stati membri. L’episodio greco non è stato un caso isolato, ma una dimostrazione della direzione assunta dalle istituzioni europee: la salvaguardia della stabilità finanziaria è stata prioritaria rispetto alla protezione dei diritti sociali e della dignità dei cittadini.
A ciò si aggiunge una dimensione geopolitica che ha visto l’Europa progressivamente subordinata alle strategie economiche e militari degli Stati Uniti. L’Ucraina ha rappresentato, fin dall’inizio del conflitto, un terreno di confronto strategico in cui l’obiettivo non era solo il contenimento della Russia, ma anche l’indebolimento dell’economia europea, in particolare del suo motore produttivo, la Germania. L’accesso privilegiato dell’industria tedesca al gas russo a basso costo, consolidato dal completamento del gasdotto Nord Stream 2, costituiva una minaccia alla supremazia economica statunitense, motivo per cui gli USA hanno perseguito una strategia mirata alla rottura di questo legame. L’interruzione delle forniture energetiche russe, combinata con le politiche ambientali del Green Deal europeo, ha generato una crisi energetica che ha inciso gravemente sulla competitività industriale del continente, favorendo le esportazioni di gas liquefatto statunitense a costi maggiorati.
Parallelamente, gli Stati Uniti hanno spinto l’Europa a svuotare i propri arsenali militari per sostenere l’Ucraina, determinando una crescente dipendenza dalle forniture belliche americane. In prospettiva, ciò implica non solo un impegno finanziario ingente per la ricostituzione delle scorte strategiche, ma anche una perdita di autonomia industriale e tecnologica nel settore della difesa. A ciò si aggiunge la prospettiva di un’integrazione dell’Ucraina nell’UE, con conseguenze destabilizzanti per il mercato agricolo europeo, minacciato dall’ingresso di prodotti ucraini a basso costo, e per l’intero assetto politico dell’Unione.
In questo contesto, l’Unione Europea si trova oggi di fronte a un bivio: perseguire un modello orientato al rafforzamento della giustizia sociale e della protezione dei cittadini o continuare su una traiettoria che privilegia l’industria bellica e la militarizzazione delle politiche pubbliche. La scelta di destinare ingenti risorse economiche agli armamenti a discapito del welfare e dello sviluppo sostenibile solleva perplessità etiche, politiche ed economiche, poiché non solo accentua le disuguaglianze interne agli Stati membri, ma erode anche la legittimità democratica delle istituzioni comunitarie.
La costruzione di un’Europa sociale richiede un impegno concreto per la tutela dei diritti fondamentali, la promozione di politiche redistributive e l’investimento in settori strategici per il benessere collettivo. La sicurezza non può essere ridotta esclusivamente alla dimensione militare, ma deve essere concepita in termini di stabilità economica, protezione sociale e garanzia dell’accesso ai servizi essenziali per tutti i cittadini europei.
La manifestazione del 15 marzo, pur dichiarando di voler difendere i valori europei, non affronta in modo critico le contraddizioni interne all’attuale progetto politico dell’UE. La partecipazione avulsa da una riflessione approfondita, senza contestare esplicitamente la proposta di riarmo, rischia di legittimare una prospettiva che normalizza la militarizzazione dell’Europa e la sua subordinazione a interessi strategici estranei alle reali esigenze della popolazione. Le piazze chiamano la pace, mai la guerra, mai il riarmo, mai l’esasperazione del conflitto.
In questa fase storica, è necessario interrogarsi se l’Unione Europea voglia costruire un modello basato sulla coesione sociale o sulla supremazia militare. La risposta a questa domanda determinerà non solo il futuro dell’integrazione europea, ma anche la capacità delle istituzioni comunitarie di rispondere alle crisi globali in modo conforme ai principi di giustizia, solidarietà e pace.
È imprescindibile un cambio di rotta che riporti l’UE al centro di una politica di cooperazione e di sviluppo sociale, anziché proseguire lungo la strada del riarmo. Solo un’Europa fondata sulla tutela del benessere collettivo e sulla diplomazia potrà aspirare a un ruolo di guida nella costruzione di un ordine internazionale stabile e pacifico. Per queste ragioni non possiamo non interrogarci su mobilitazioni che, nella formulazione proposta, non offrono una prospettiva di autentica trasformazione sociale e politica dell’Unione Europea e fornisce un assist alle parole di Ursula von der Leyen pronunciate a Londra poche ore fa: “L’Europa deve riarmarsi”.
Le piazze chiamano alla pace e al disarmo, mai alla guerra, mai all’esasperazione dei conflitti. L’Europa delle armi e dei vincoli di bilancio non sarà mai la nostra Europa. Manifestare nel nome dell’Europa e basta, senza porsi il problema di quale Europa si voglia costruire, sarà utile solo a fornire il cappello politico e ideologico al manifesto militarista di Ursula von der Leyen e sodali.
Le “radiose giornate” appartengono ad un’altra epoca storica, che non deve mai più ripetersi.
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